La prima navicella che ha portato degli uomini per una manciata di giorni a passeggiare sulla Luna, facendo fare all’umanità quel leggendario “grande balzo”, si chiamava Apollo. Strano che quel belloccio svampito del dio del sole, per noi che siamo cresciute con Pollon, fosse stato preso a rappresentare la prima missione lunare, ma tant’è. A distanza di più di cinquant’anni e molte battaglie per l’inclusione vinte, forse, partirà anche sua sorella, Artemis. Proprio lei, Artemide che francamente ci sembra più adatta perché è la dea delle iniziazioni femminili e della luna, guarda caso. E a questo proposito è bene sapere che nella missione Artemis III prevista per il 2025, a toccare il suolo selenico ci sarà la prima astronauta donna (di cui evitiamo di fare il nome perché è bene che rimanga una “donna a caso”, sennò che divertimento c’è) e, tenetevi forte, anche il primo astronauta nero, sempre in generale senza le generalità. Ma questa è un’altra storia.
Ora, analizzando per bene questa bella compagnia, qual è la prima domanda che tutte ci siamo fatte? Come si vestirà la madrina di tutte le Women in STEM che “col razzo” che ha sfondato il soffitto di cristallo partecipando alla nuova missione? Lassù lo sbalzo termico va dai – 233° a + 123°. Non si scherza, visto anche che stavolta si va sul nostro amato satellite per capire come potercisi trasferire. Altro che piccoli passi, rifiuti da scaricare e un vessillo da piantare. No, no! Stavolta si fa sul serio. Si piantano le tende. La rassicurazione è arrivata da Axiom Space, l’azienda spaziale privata cui la NASA ha affidato la realizzazione della tuta di nuova generazione. Già sappiamo che si chiama AxEMU (Extravehicular Mobility Unit) ed è progettata, parole del CEO Michael Suffredini “per essere indossata da un’ampia gamma di corporature e tipologie fisiche” (persino da donne e neri, ndr). Ma la vera chicca è quello che la distinguerà dalle precedenti tute che, poveri loro, erano costituite da 21 strati di morbido tessuto cuciti a mano da un’azienda produttrice di reggiseni e cinturini, niente fibre di vetro o alluminio di avveniristica concezione, solo teli morbidi, anche se dal colore argentato, il colore del futuro, giusto?
E cosa avrà di diverso da quei simil-pepli cosmici degli anni Sessanta/Settanta la nostra AxEMU? La firma, signori miei, la firma che sarà Prada. Del resto con la Luna, anche se era rossa, ha già avuto a che fare, questo va detto e deve bastare. E poi, se ci sono delle donne a bordo, è ovvio pensare al loro guardaroba, no? Che non si dica che gli italiani all’estero sono solo pizza, spaghetti e mandolino. Questa è la dimostrazione che sono anche tanto fashion. Se qualcuno vi dirà che hanno contattato la casa di moda italiana per i decenni di sperimentazione nello studio di tecnologie innovative e know-how nel campo del design, non credeteci. In fondo la tuta come capo d’abbigliamento l’ha inventata un italiano, il futurista fiorentino Ernesto Michahelles, aka Thayaht
Voi lo sapevate? È il 1920 quando sul quotidiano La Nazione nel numero del 17 giugno, per la modica spesa aggiuntiva di 50 centesimi, con il giornale si può avere il cartamodello per realizzare la sua invenzione più eclatante, la tuta, accompagnata anche da efficaci giochi di parole che giustificano il neologismo: «tuta di un pezzo», «veste tuta la persona», e «la consonante perduta si ritrova nella forma stessa della tuta che ha appunto la forma della T». La T di Major Tom, aggiungiamo noi, che chiamava ground control e diceva “Planet Earth is blue, and there’s nothing I can do”, senz’altro alludendo a una disparità di genere identificata in quel riferimento cromatico che non sarà sfuggito ai più. Ma con questa nuova conquista tutta al femminile, con la prima astronauta donna sulla Luna che vestirà nientepopodimenochè Prada, caro David che ci guardi da chissà dove con commiserazione, c’è qualcosa che si può fare. Come far sapere ai giornali di che marca è la camicia che porti.