Di Barbie si dice di tutto: è propaganda femminista e, ironicamente, è anche diventata un’icona anticapitalista. I meme e le prime impressioni sembrano raccontare un film diverso da ciò che Barbie vuole essere: la prima eroina del Mattel Cinematic Universe.
Faccio parte dell’ultima generazione cresciuta con le Barbie: ricordo i film animati e ricordo i prezzi, spesso proibitivi, di queste bambole di plastica biondissime e perfette. Faccio parte della generazione che si è poi disinnamorata di Barbie e che ha visto in lei il primo esempio del distacco tra generi che, crescendo, ci è sembrato sempre più insensato. Perché, mi chiedevo quando ormai tutte le Barbie che possedevo risiedevano in uno scatolone nel ripostiglio, da bambina desideravo così tanto quei pezzi di plastica?
Questa domanda è rimasta senza risposta per anni, ma non mi ha impedito di prendere parte all’hype per il nuovo film di Greta Gerwig. Non mi sento di aver fatto pace con la me che aveva iniziato a dubitare della figura della bambola con i piedi costruiti per indossare i tacchi, anche in corsia in ospedale, o nello spazio. È vero, Barbie ci ha insegnato che possiamo essere tutto, purché rappresentassimo l’ideale di femminilità che ci hanno venduto.
Per chi è, quindi, il film di Barbie? Per me, e chi come me fa parte delle generazioni Millenial e Gen Z che probabilmente possedevano una Bratz invece di una Barbie, ma che sanno cosa si intende per “Barbiecore”, che parlano fluentemente la lingua della critica sociale e cinematografica che oggi si fa tramite video essay lunghi un’ora o TikTok lunghi un minuto, senza vie di mezzo. Barbie è una rivolta culturale che coinvolge, ironicamente, due vie parallele: quella della cultura delle masse vittima del Pantone 219C e delle tonnellate di merchandise; e quella della cultura di nicchia, degli appassionati di cinema che vedranno con interesse la top 5 di Letterboxd curata da Greta Gerwig e degli amanti del design che guarderanno il tour della Casa di Barbie sul canale di Architectural Digest.
If you love Barbie, this movie is for you. If you hate Barbie, this movie is for you. Tutti, in qualche modo, abbiamo cercato di dare un senso al fenomeno di Barbie perché tutti, in un modo o nell’altro, odiamo Barbie (Vox dice che solo nel 2023 sono stati pubblicati mezzo milione di contenuti di critica su Barbie tra reports, saggi, video analisi e così via). Barbie funziona perché sia la regista che la produzione hanno saputo muoversi sulla sottile linea che separa la critica dal femminismo performativo che permea qualsiasi prodotto artistico uscito negli ultimi 5 o 6 anni, una lettera d’amore all’ iconica bambola bionda e un compito assegnato da Mattel.
No, Barbie non è un’icona anticapitalista, ma è la rappresentazione più umana che si può avere del trauma di essere venute al mondo, come donne, contro la nostra volontà. È anche un incoraggiamento, perché essere donne, prima o poi, non sarà più visto come una prova in più da superare, bensì qualcosa da amare di noi stesse. No, Barbie non è un’icona femminista, ma una celebrazione liberatoria di femminilità. E per questo ci piace.
Mattel ha ricontestualizzato con successo il brand di Barbie per le generazioni che verranno e che vedranno la bambola non come un prodotto, ma come uno stile di vita. Il film, nonostante sia stato accompagnato da una imponente campagna di marketing, non dà l’impressione di voler vendere un giocattolo, ma porta con successo Barbie nel mondo reale. Mattel ha lanciato in questo modo una serie di adattamenti cinematografici dei suoi giochi più famosi: Daniel Kaluuya prenderà parte alla produzione di un film su Barney, il dinosauro viola; Lily Collins interpreterà Polly Pocket mentre Tom Hanks apparirà nel film di Major Matt Mason.
Mattel ha scoperto il segreto che potrebbe nascondersi dietro un franchise interessante, oltre che di successo. Il coinvolgimento di Gerwig, ad esempio, non sembra essere stato tutto rosa e fiori: nonostante alcuni conflitti iniziali tra gli interessi della Mattel e lo scopo della regista, la casa di produzione di giochi ha concesso una libertà artistica maggiore di quella che ci si potrebbe aspettare. Inoltre, come riportato dal New Yorker, il lavoro di Kaluuya su Barney si prospetta come un’opera “surrealista”, sulle linee dei film di registi quali Charlie Kaufman o Spike Jonze. La Mattel fa tesoro delle esperienze fallite della Hasbro con il franchise di Transformers, e impara dal colosso Disney, per progettare un posizionamento diverso dai trend attuali e spiccare in positivo: il fine non è quello di ri-vendere i prodotti Mattel ai bambini e ai giovani di oggi, è piuttosto quello di parlare all’angoscia sociale dei giovani adulti.
Ynon Kreiz, Presidente e Amministratore delegato di Mattel, è un moderno “Medici” dei franchise cinematografici. A differenza della Disney, che conta sotto il suo nome saghe come quella di Star Wars, l’amatissima Pixar e gli eroi Marvel, Mattel sa di non possedere personaggi così d’impatto, ma solo giochi che, non sempre, sono ricollegabili al suo brand: tutti conoscono il gioco di carte UNO, ma non tutti sanno che è un prodotto Mattel, ad esempio. Kreiz ha bisogno di un capitale culturale che dia un nuovo valore ai propri prodotti e veste, di conseguenza, i panni di un moderno mecenate.
Quello con Greta Gerwig è stato un primo, travagliato esperimento. La stessa regista si è accorta, mentre lavorava al progetto, che anche Barbie è stata una sequenza di esperimenti non sempre riusciti (Allen e Midge, la bambola incinta, sono solo due tra i numerosissimi esempi). Barbie, il film, è costellato da questi esperimenti mancati della Mattel e fa del fallimento la loro caratteristica principale, rendendoli quindi dei personaggi divertenti, sì, ma malinconici e fondamentalmente tristi. Greta Gerwig si è data come scopo quello di ricordare che Barbie non è monolitica, non è sempre esistita e che anche lei ha dei difetti, decostruendo in questo modo l’iconica scena iniziale del suo stesso film. Mostrare la stranezza e le contraddizioni di un prodotto, di una storia, è il miglior modo di onorarli e il modo più efficace di produrre un’opera, invece che una pubblicità.