Black Mirror è terribile

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La sesta stagione di Black Mirror è disponibile da circa un mese su Netflix. Ed è una grande delusione.

Breve ricapitolazione: creata dallo showrunner britannico Charlie Brooker, si tratta di una delle più acclamate e famose serie antologiche della storia, che ha debuttato nel 2011 e, dopo due stagioni trasmesse da Channel Four e prodotte da Endemol, è stata acquisita da Netflix. Che cos’è Black Mirror? Qual è il comune denominatore che tiene insieme storie tanto diverse come quelle che si sono susseguite in questi anni? Una prima sbrigativa risposta ci porterebbe ad identificare come elemento centrale del progetto di Brooker la tecnologia, raccontata in una prospettiva distopica.

Lo “schermo nero” del titolo sembra un riferimento inequivocabile e rimanda ai device (laptop, smartphone, tablet) attraverso cui facciamo esperienza del mondo e che spesso lo distorcono o lo “schermano” occultandolo del tutto. Tuttavia, è ancora più appropriato individuare il fattore comune della serie nella sensazione di profondo disagio che molti episodi delle stagioni precedenti sono stati in grado di depositare “al di qua” dello schermo nero, uno stato di profondo malessere e di scissione che nessun altro progetto narrativo è stato in grado di costruire con un tale forza. Black Mirror nello scorso decennio ha rappresentato nella narrativa di fiction la screziatura nel quadro, l’elemento dissonante ma salutare capace di farci guardare proprio nel punto cieco del progresso che preferiamo evitare, quello in cui si raggrumano le nostre paure.

All’uscita di questa sesta stagione, quattro anni dopo la precedente, imperversa un dibattito che rischia di mettere fuori fuoco le questioni importanti: Black Mirror è ancora Black Mirror? La domanda non è priva di senso in sé, ma lo diventa per i termini in cui viene posta. Nei nuovi cinque episodi della serie sono molto poco presenti, in alcuni quasi per nulla, le parole chiave che hanno caratterizzato il franchise: tecnologia, futuro e distopia. Tuttavia, non è questo il nucleo, non è qui che si misura l’identità indubbiamente smarrita della serie e se ci limitiamo a inquadrare il discorso sul piano dei temi e delle suggestioni, la risposta al quesito rasenta l’inutilità.

Del resto, ripensiamo al primo episodio della prima stagione, Messaggio al primo ministro. Le questioni tecnologiche erano pressoché assenti e la distopia era più che altro una dissacrante e iperbolica rilettura dell’orizzonte presente (a quel tempo, nel 2011) dei mass media. Il vero punto della questione è invece che la sesta stagione di Black Mirror, anche quando ci ripropone diligentemente tutti gli ingredienti attesi – come nell’icebreaker Joan è terribile – smarrisce completamente la capacità di dire qualcosa sul mondo in cui viviamo, qualcosa che restituisca il nostro sguardo e ci ri-guardi davvero. Dentro a quello specchio scuro non ci ritroviamo più. In Joan è terribile la proiezione distopica della tecnologia c’è, ci sono gli algoritmi, c’è la violazione della privacy e ci sono anche i metaversi incastrati come scatole cinesi. Eppure manca qualcosa, anzi manca tutto, e ce ne accorgiamo proprio quando dopo i titoli di coda lo schermo torna a essere nero: di quell’inquietudine profonda che grandi classici blackmirroriani come Ricordi pericolosi (Ep. 3, S. 1) o Torna da me (Ep. 1, S. 2) erano in grado di lasciare non vi è più traccia.

L’impressione complessiva è che noi, mondo occidentale del 2023, siamo già ben oltre Black Mirror. Nei quattro anni trascorsi dalla stagione precedente a oggi sono accadute cose impensabili, accumulate l’una sull’altra, che segnano una frattura epocale, una scissione dell’immaginario di cui potremo renderci conto solo tra un po’ di tempo. Come subito dopo l’11 Settembre, però, anche questa volta ne cogliamo immediatamente i primi effetti, e cioè il fatto che il nostro modo di leggere il mondo è cambiato per sempre, disinnescando la retorica apocalittica e antifrastica di Black Mirror, che ora è innocua. Il covid, Black Lives Matter e il nuovo pericolo atomico, per citare solo tre fatti della quantità di cose accadute in questi quattro anni, hanno cambiato le coordinate narrative e visive di ciò che possiamo assimilare come distopico, tanto che l’ironia e gli ammonimenti di Brooker ci scivolano addosso senza lasciare alcuna traccia. Prendiamo l’episodio Mazey Day, che ambienta nel 2006 una storia di paparazzi, celebrità e omicidi, assumendo via via venature thriller sempre più tese.

Drammaturgicamente il tutto funziona, ma che cosa ci può dire una vicenda di questo tipo sulla privacy, sulla celebrità e sulla post verità che non siamo già stufi di sentire, di sapere e di vivere? E un apologo stantio come Demone 79 può davvero agitare in qualcuno degli smottamenti apocalittici, quando da più di un anno conviviamo con l’idea che un conflitto nucleare si possa scatenare da un momento all’altro nel cuore dell’Europa? Dei cinque episodi, forse si salva dalla mediocrità il solo Beyond the Sea, incastrato in un passato ucronico e, per quanto distante dal mood blackmirroriano, un suggestivo racconto di fantascienza filosofica dai tempi congelati ed eleganti. 

Probabilmente, alla domanda di partenza, se Black Mirror sia ancora quello di sempre, la risposta è no. Black Mirror è morto. Probabilmente, perché si sono ribaltati i piani. Black Mirror siamo noi e i racconti di Charlie Brooker non ci ri-guardano più.

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