Ciao Erik! Allora, io partirei da una cosa che ho scoperto preparando quest’intervista, ovvero che ti sei trasferito in Svezia a 19 anni per evitare il servizio militare in Italia e studiare cinema a Stoccolma. Mi piace tantissimo come aneddoto, com’è andata questa esperienza?
“Col servizio militare è andata bene! Pensa te quanto tempo fa era… Sì, era l’epoca in cui era obbligatorio ed eravamo in tanti a non volerlo fare, perché sicuramente era tempo buttato via. Quindi mi sono trasferito. Mia madre è svedese, c’era anche un motivo per andare in Svezia e un po’ di pressione familiare per andare in Svezia almeno un po’ di mesi, per imparare bene la lingua. Lì mi sono trovato in questa scuola di cinema svedese, che non richiede nessun titolo: chiunque può fare questa scuola a prescindere dall’educazione che ha. E lì ho scoperto il documentario.
Tieni conto che sono arrivato in Svezia, nel 1986, quando non c’era nemmeno ancora la televisione commerciale. Io arrivavo già da tanti anni di televisione di Berlusconi, per me era come tornare indietro nel tempo. C’erano solo due canali televisivi, canali statali, e su questi mi ricordo che fecero vedere in prima serata il documentario Shoah. Non so se lo conosci, Shoah è un pezzo epico sull’olocausto sono tipo 9 ore di documentario fatto da Claude Lanzmann verso la metà degli anni ’80. Sono solo lunghe interviste che lui fa sia ai sopravvissuti, a chi aveva lavorato nei campi di concentramento in Polonia, oppure a chi viveva vicino ai campi di concentramento e vedeva i treni che arrivavano. Tutto senza nemmeno un’immagine d’archivio. Insomma era uno shock passare dalle veline a un documentario diviso in due sere diverse in prima serata. Poi tutto è arrivato anche lì, però questa è stata anche un po’ forse la mia riscoperta della realtà, mi sembrava di aver perso il contatto con la realtà e attraverso il documentario è come se la riuscissi a riconquistare.“
Questo inseguire la tua passione, in After Work in particolare, si riflette su come riesci a sostenere due tesi in contrapposizione tra loro, rimanendo credibile. Partendo dall’analisi del rapporto che si ha col lavoro in Corea, molto morboso, vissuto in maniera totalizzante, si arriva in Kuwait, dove il lavoro non è sempre essenziale per guadagnarsi da vivere… E questa cosa mi sembra che sia riconducibile a una sensazione che mi piace tantissimo, ovvero che gli argomenti di cui parli riescono sempre ad interessarti e ti piacciono personalmente. Anche in relazione all’argomento di After Work mi viene naturale chiederti: “Consideri il tuo lavoro più una passione, un hobby o un lavoro lavoro?
“È chiaro che è una passione e un privilegio. A me piace molto chi si può permettere di fare una cosa che gli piace, che mette in moto tutto quello che accende il suo piacere. Adesso io, in questa fase di lavoro, sto parlando molto, ma io non ho veramente nessun problema ad ascoltare a incuriosirmi, a farmi prendere anche dai personaggi, dal viaggiare, dal poter uscire nel mondo con delle domande abbastanza irrisolte, con la speranza che alla fine un progetto ti avrà arricchito a livello personale. Per cui descritto così è una forma di utopia di vita, se vuoi. Poi comunque ci sono gli aspetti più pesanti: i finanziamenti sono sempre una rottura di palle, sei sempre lì con lo stress, devi essere sempre approvato e il montaggio è sempre molto complicato, fino a quando il film non è finito sei totalizzato… Non è un lavoro che fai solo in un certi orari, ti entra un po’ in tutte le fasi della vita. È ovvio che faccio un lavoro che per molti non sarebbe nemmeno considerato un lavoro, che poi si può anche discutere su quanto sia utile, se vuoi. Nella società del benessere del futuro, quanti artisti possiamo permetterci? Mi piacerebbe pensare che tanti lo potrebbero fare. Immaginiamoci una società in cui le macchine fanno molto di più, in cui tutte le cose noiose sono fatte da altri. È chiaro che l’arte per alcuni, non per tutti, può essere veramente una cosa davvero gratificante sulla quale buttarsi.”
Stai rischiando di bruciarmi un sacco di domande, ma molto interessante!
“Sì, ascolta l’unica unica cosa, l’hai già detto tu, comunque per il Kuwait e la Corea secondo me sono due facce della stessa medaglia: l’incapacità di immaginarsi un futuro con meno lavoro ha portato la Corea a continuare a lavorare anche quando non c’è bisogno e anche il Kuwait a continuare a lavorare anche quando non ce n’è bisogno. Pur avendo gli schiavi, i soldi e il tempo, questa mancanza di fantasia li porta comunque a stare lì, a far finta di lavorare.”
Sì, è importantissimo avere un’identità culturale in quegli ambienti lì… Hai menzionato anche tu che per formare appunto anche della tua identità artistica ti piace ascoltare tante cose diverse e tante voci diverse diciamo. Mi colpiscono ogni volta nei tuoi documentari le sequenze più ritmate, con una ripetizione di una parola o di una frase. Mi piacciono tantissimo e mi chiedo quanto ti ispiri ad altri mondi, se ci sono artisti che guardi con particolare attenzione di altri mondi, non so, musicali o fotografici? Quanto cerchi di spezzare il ritmo tradizionale di racconto di un documentario, che di solito è piuttosto pacato, con queste sequenze, guardando anche al cinema moderno?
“Ma io credo di essere un po’ il figlio di un documentario che si chiama Koyaanisqatsi, non so se lo conosci, te lo consiglio. È un film molto vecchio, è uscito forse nell’81, insomma era la prima volta che si usavano musica e immagini insieme, era prima di MTV per intenderci prima di quando poi è arrivato anche il genere dei videoclip. Non era diventato ancora un modo di raccontare quello di fare solo immagini e musica. Questo questo film, con la musica di Philip Glass, è uno studio della società moderna.
Infatti Koyaanisqatsi è una parola tipo degli indiani del Nord America che vuol dire tipo “vita pazza” c’è uno studio della civiltà moderna semplicemente di osservazione. Guarda il mondo molto da lontano, senza interviste, non ci sono ritratti, vedi proprio tutto quello che succede e hanno usato per la prima volta la tecnica del timelapse (se fai 25 fotogrammi al secondo, riproduci il tempo così com’è, se ne fai uno al secondo tutto va più veloce), questo effetto ultra rapido. Ecco il film è un’ora e mezza di solo musica immagini mi ricordo che a me e a tanti nella mia generazione sconvolse completamente. Era proprio come scoprire una forma nuova, uno sguardo e soprattutto un modo di raccontare che non era cerebrale. Non era come andare a una conferenza e ascoltare una persona che tiene una lezione, era un tipo di esperienza come penso che il cinema debba essere, un’immersione più vicina all’estasi estetica.
Per me è molto doppio, perché da una parte mi interessano cose abbastanza razionali tipo i grafici del Gallup, le statistiche su certe società, il fatto che il Kuwait del paese più fisicamente inattivo del mondo secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oppure che il 70% dei cittadini in Kuwait lavora in questi uffici, cioè mi faccio tante idee su fatti e dati, così come lavora un giornalista, probabilmente. Però poi la mia grande sfida è riprodurre queste cose e anche queste impressioni che incontro in un modo che non sia troppo diretto alla testa, ma sia più diretto allo stomaco e al cuore. Ho la grande fortuna di lavorare insieme a Johan Söderberg, a cui va il merito di questa estetica. Lui ha iniziato come percussionista, poi musicista e dopo ha iniziato a fare anche videoclip con grande successo. Quando padroneggi l’estetica come lui, quando sai sia comporre musica che montare in questo modo, diventi molto attraente per il mondo commerciale.
Infatti lui ha fatto anche tanta pubblicità, faceva tutti i backdrop di Madonna ai concerti, ha montato dei videoclip con Beyoncé, ha una carriera, diciamo, che credo gli piaccia di meno però è quella che lo ha mantenuto bene, e per fortuna ha grande piacere a lavorare con me e la stessa cosa vale per diverse diverse persone con cui collaboro, che potrebbero dedicarsi solo a cose a scopo di lucro, invece nei nostri progetti non è così. Poi lavoriamo insieme da tanto tempo. Comunque questa cosa della ripetizione è proprio un’idea di trascendere il banale quotidiano, di cercare di trovare delle parole chiave che poi dette quelle, è inutile dirne altri forse. Allora tanto vale a ripeterle, no?”
Relativamente a questo mi viene in mente: quanto è importante il lavoro di post produzione nel creare i tuoi documentari? Immagino che l’autorialità, quindi il lavoro degli autori, viva molto film anche attraverso l’editing e il montaggio. Quanto quanto lavoro c’è effettivamente anche solo di selezione del materiale, immagino che tu filmi tante altre cose rispetto a quelle che poi metti in un film, quanto è importante l’editing, la scelta, la selezione?
“Allora, sarebbe opportunista non ammettere che negli anni ho potuto lavorare sempre con delle condizioni migliori. Quando ho fatto Surplus, vent’anni fa, ero molto più “cane sciolto” e ho dovuto arrabattarmi con quello che c’era; mi piaceva tantissimo girare in pellicola per la qualità dell’immagine, però non potevo permettermi di girare molto in pellicola. C’era questo mescolare TV Cam con la pellicola che trovavo molto interessante. Ci sono delle immagini del G8 a Genova, per esempio, dove io so che eravamo gli unici a riprendere in pellicola e io sono molto fiero di quelle, immagini che comunque rimangono nel tempo in modo molto più definitivo.
E anche perché con la pellicola devi fare una scelta molto precisa: hai 10 minuti nel tuo rullo per cui non fai come si fa adesso, che puoi fare delle riprese molto lunghe, posticipando le decisioni finali a dopo, nella post o nell’editing, per cui in realtà questi limiti mi hanno portato ad essere più allenato a fare delle scelte precise su cosa voglio riprendere e cosa non.
Adesso, anche con After Work in realtà, non è tantissimo il materiale in più. Le interviste che faccio sì, sono lunghe, mi piace parlare tanto, ma per quanto riguarda le immagini o la scelta dei Paesi sono quelle che vedi. Forse anche perché è pericoloso riprendere troppo…
Ormai so più o meno quello che voglio, anche perché i personaggi si stancano, se riprendi troppo una persona dopo l’entusiasmo iniziale per molti è pesante avere lì una troupe e una camera puntata addosso.
Non credo nemmeno nell’intimità, è una cosa che fanno più i film reali di quella di voler vedere la gente nella loro vita privata. A me interessa una parte non necessariamente troppo intima, mi interessa quello che pensano.”
Invece non so se hai presente un film del 2011, In Time, in parte simile ad Elysium, un altro film con Matt Damon. In questo film siamo in un futuro distopico, in cui il tempo diventa l’unica valuta di scambio per cui al bar e paghi i drink in minuti, si hanno dei timer fluorescenti sul braccio dove e dove tu hai non so 25 anni quando nasci e se ti comporti bene ti pagano lo stipendio con un certo numero di ore.
“Wow questo non l’ho visto, questo sembra una roba da Black Mirror!”
Sì sì, poi è un film che può essere criticabile sotto altri aspetti, però come idea è molto interessante. Mi aveva ricordato molto anche una riflessione che avevi fatto al forum del Beltrade. Mi chiedevo, quanto credi sia possibile che venga concretizzato un mondo in cui il tempo diventerà l’unico valore? È possibile che i soldi perderanno un po’ di significato in un certo senso e diventerà proprio il tempo che si ha da passare fuori dal lavoro o, insomma, il tempo in generale la valuta più importante della società?
“Sì… Ne parlavamo anche dopo il forum al Beltrade. Per esempio, ChatGPT a me che mi ha fatto risparmiare del tempo. Non sono molto veloce a scrivere, mi richiede del tempo, e spesso ChatGPT mi dà delle bozze per prendere ispirazione. Vedo come su tante cose mi piacerebbe spenderci meno tempo, per non parlare della burocrazia, che in Italia poi è molto più lenta. Quando mia mamma stava male, che dovevo andare negli ospedali a portare delle carte, mi trovavo in coda con questi parenti, in coda sotto il sole e mi dicevo “Ma che spreco di tempo… Pensa se se potessimo fare altro!”
Penso veramente che siamo in una fase in cui questa opportunità, di avere più tempo libero, aumenterà. Penso che l’accorciamento della settimana lavorativa sia inevitabile, non vedo come non possa essere discussa e implementata. Credo anche che le persone della tua età, lo vedo anche con i miei figli, abbiano un rapporto molto diverso con l’idea di lavoro e di carriera. È come se aveste visto già troppa merda intorno, troppo malessere. La gente ossessionata dal lavoro che anziché diventare grandi sembrano tornare piccoli, questa cosa è un po’ sfatata. Ci sono tanti miti che come umanità stiamo sfiatando un po’ e quello del lavoro penso che sia uno.
La domanda che mi sono fatto nel film è se saremmo veramente in grado di guardarci dentro e decidere di fare altre cose più variegate. Questo lo vedi tanto con i pensionati, perché quando si va in pensione c’è un po’ il mito di quello che va in pensione, va in crisi e muore perché il lavoro gli dava tutto. In realtà, secondo gli studi che ho letto io, non è vero. I pensionati sì, hanno un primo periodo di assestamento, ma poi generalmente il loro benessere fisico cresce, stanno meglio, c’è meno stress, il cuore migliora… Anche perché da pensionato spesso non c’è più nemmeno lo stigma del disoccupato, non ti trovi in un contesto in cui ti dicono “Ma come non hai un lavoro? E allora chi sei?”. Un esempio banale che mi viene in mente è il concetto di “paternal leave”, che è stato implementato in Svezia: i padri stiano a casa con i figli per tanto tempo, se hai un figlio con la tua o il tuo partner, hai 450 giorni a disposizione per stare a casa. Giorni da dividere esattamente come vuoi. Nel giro dei miei amici e ancor di più tra chi è più giovane di me, i papà stanno a casa con le carrozzine, col biberon, è normale. È una cosa che mi piace molto questo mettere in discussione i concetti. A parte l’allattamento, tutto il resto lo può fare benissimo un uomo: cambiare i pannolini, mettere a letto o dar da mangiare.
E questa cosa secondo me è frutto di un paradigma culturale che è cambiato. La stessa cosa potrebbe valere anche con il lavoro, potrebbe diventare molto più accettato e normale non lavorare così tanto e magari anche prendersi degli anni sabbatici. È un ottimo modo di pensare alle idee, porsi sempre una domanda in più, come “But why?”
Senti, una riflessione che mi è nata guardando gli appunti presi durante il film: ho scritto tante volte la frase “jobs are modern slavery” e mi sono ritrovato a pensare che anche in quest’ottica di distruzione di “lavoro pensato più tradizionalmente”, il lavoro alla fine in resta l’unico modo di “liberarsi” dal lavoro paradossalmente. Quindi basterebbe vivere il lavoro non come una condanna, ma come libertà?
“Sì, se dici la parola al lavoro oggi che cosa ti viene in mente? Se vedi una persona sdraiata su un’amaca che guarda il cielo dici “Ozio.” ma che cosa ne sappiamo, magari nella sua testa sta escogitato delle cose rivoluzionarie.
La definizione del fare è molto limitata oggi. Se penso alla cultura e come viene influenzata anche dalla politica, i lavori basta che siano lavori “veri” e sono sempre dignitosi, a prescindere da quello che si fa. Non sono io a decidere, però io penso che dovremmo liberarci da questi idee e da certi orgogli professionali. Non sempre siccome è un lavoro, è dignità. Nel mondo dei camionisti c’è fortissimo questo fenomeno. Abbiamo fatto delle riprese in una fabbrica di camion, dove stanno già progettando quelli a guida autonoma, e questa manager ci diceva che i camionisti hanno un forte orgoglio professionale rispetto al loro lavoro. Ogni tanto ti chiedi, rischiando di diventare quasi disprezzante, ma questo orgoglio professionale a chi fa comodo?
Ecco il mondo della pubblicità è così. Io c’ho lavorato molto poco però lo conosco, perché comunque tutti siamo tutti un po’ dipendenti da quei soldi ogni tanto. Ha bisogno di questo, darti i festival, i premi, i concorsi per darti un’importanza un po’ senza significato. Poi lo sappiamo tutti che quando lo facciamo è una cosa un po’ sporca, che vendi dei prodotti che non fa bene a nessuno soprattutto in questo periodo in cui bisogna consumare di meno.”
Secondo te in questa ricostruzione del lavoro con un’impronta artistica, quanto riusciranno a integrarsi le persone che non sono naturalmente creative? Per esempio mio padre, in contrasto con mia madre che fa l’artista, è sempre stato super organizzato. Per lavoro, semplificando al massimo, usa tabelle su Excel e organizza tutto. Gli piace quella cosa lì, si trova benissimo. Però il lavoro “organizzativo” è quello forse più sostituibile da algoritmi e IA. Secondo te c’è un lato di creatività un po’ innato che alcuni di noi dovranno riscoprire, oppure..?
“No ma aspetta, fai benissimo a chiedere. Io non penso che la creatività si esprima solo dipingendo quadri. Anch’io stesso ho una parte della testa a cui piace fare anche il produttore, un lavoro molto più sui budget ed Excel. Riconosco quel tipo di personalità, poi alcune persone le hanno entrambe. Mi hai fatto pensare anche a quando, facendo le riprese ai selezionatori di spazzatura, ho capito come certi tipi di personalità trovano piacere in cose che per me sarebbero noiosissime, così è l’umanità. Poi credo che manchi proprio tolleranza e anche per questo non voglio essere intollerante. Ecco, se io fossi un dittatore totale, nel mio mondo tutti dovrebbero fare solo documentari, musica e fotografia. Ma noi ci troviamo in un modo in cui è proprio la parte più rigida e razionale che decide, dall’epoca della rivoluzione industriale ha avuto il sopravvento un certo tipo di cervello.
E ora l’informatica e questo mindset “tecnologico e ottimizzante” dominano un po’ troppo. Ah, in questo mio grido di tolleranza rientra anche proprio il cazzone che non vuole fare niente, perché anche lì bisogna accettare che forse anche quello è essere umani, e forse sarà così per cinque anni la loro vita e poi cambieranno.
Vedo una grande opportunità nella fase storica in cui ci troviamo, ognuno di noi può rivendicare il repertorio di tutte le personalità che può avere.”
Senti, mi è venuta in mente durante le proiezioni questa domanda che è un po’ irrispondibile, ma su queste cose mi piacciono i ragionamenti che riesci a fare. Come si può riuscire a cambiare un paradigma che è sociale, però fregandosene della società? C’è un modo?
“Se lo chiedi a me che faccio cinema, ti dico l’arte e l’estasi artistica.
C’è questo mio amico che ha fatto gli studi come cambiare l’attitudine rispetto al problema dell’ecologia. Perché la gente sa tutto, eppure continua a volare e mangiare? Lui si interessava di apprendimento legato a esperienze e mi ha fatto l’esempio di una sensazione di gran privilegio, che si chiama Overview Effect. È quella che provano gli astronauti quando arrivano nell’atmosfera e guardano il pianeta e, come purtroppo pochissime persone al mondo, vedono questa palla fragile e gli viene un senso di responsabilità. È un’esperienza di estasi. C’è un prima e un dopo questa esperienza. È trasformativa, chi chi ha visto il pianeta così non riesce a non avere un senso di responsabilità nei suoi confronti, a non sentire tutto quello che dovremmo sentire. Tutto quello che mille film e informazioni non sono riusciti a trasmetterci. C’è una parte dell’arte che credo sia così, no? Che ti dà la sensazione di essere immerso in una cosa che ti fa riflettere.
Poi è chiaro che le esperienze di una persona sono quelle più forti, quelle vere dico. Perché comunque il film resta un surrogato di un’esperienza che poi ti faccio vedere sullo schermo.”
Tu senti di aver trovato un tuo scopo nel mondo del cinema?
“In tanti modi sì, ci sono un po’ arrivato. Sai è 30 anni che faccio questo lavoro e in questa fase sto capendo sempre di più che mi piace fare film su argomenti che all’apparenza possono sembrare abbastanza generici, tipo il lavoro, il consumismo, la videocrazia, ma che mi interessano realmente. Soprattutto dove c’è una contraddizione forte, come nel caso del lavoro, mi piace tanto girarci intorno e lì trovo proprio il piacere di lavorare. Poi comunque, come dico anche ai miei studenti all’università, c’è un po’ il mito del documentarista, come fosse una sorta di benefattore che fa film solo su dei temi giusti: i poveri, quelli in fondo, i migranti. C’è questa aspettativa da un documentario, ed è una cosa dalla quale possiamo liberarci. Dobbiamo permetterci di fare delle cose semplicemente perché ci interessano, come l’arte ha sempre fatto. Altrimenti rischia di diventare utilitarismo artistico. Quello non mi piace, l’arte non deve funzionare per niente di esterno. Nel caso di After Work mi piace il fatto che il film spinge la gente a una riflessione, una che ho anch’io nella mia testa.
Purtroppo il documentario è visto ancora un po’ come una categoria di serie B, dominato dagli argomenti e senza il glamour o le star del cinema di fiction. Ma ai festival di fiction io mi annoio, mentre se vado ai festival di documentari incontro sempre persone che hanno veramente passioni su cose legate al mondo, alla società, ai problemi. A me piace quello. L’attenzione alle celebrità e ai personaggi famosi, è una celebrazione totale del narcisismo, che è veramente uno dei mali più grossi del pianeta. “We are obsessed by people who are obsessed by themselves”. È folle, no?”
Sono molto d’accordo. Mi fa sorridere come molti trovino i documentari noiosi e invece tu, al contrario, trovi la fiction noiosa, mi piace molto…
“Sì sì, recentemente ero su un aereo per Toronto e sullo schermo puoi scegliere cosa guardare e io oh, ci provo. E a me piace anche la fiction, non è quello, sono stato formato da fiction. Però dopo un po’ non ce la facevo più, a me interessano le persone vere, ed è una cosa che sento proprio mia.”
“È bellissima come cosa e secondo me, sarò ripetitivo, si sente e traspare molto nei tuoi film: il fatto che tratti argomenti che interessano in prima battuta te…
Ti faccio i complimenti, grazie mille della disponibilità, è stato molto interessante.“