Guerra, TikTok e propaganda

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Il conflitto Israelo-Palestinese non sta portando soltanto a immense sofferenze umane, si è espanso anche su internet: i social come Facebook, Instagram e soprattutto TikTok, in particolare, hanno aperto a chiunque una finestra sull’orrore e l’umanità infranta da questa tragedia.

La guerra è una demolizione non solo fisica, ma anche mentale dei gruppi coinvolti e il conflitto Israelo-Palestinese è un esempio chiaro di oppressione e punizione collettiva, di una distruzione che non fa prigionieri. Negare l’accesso all’acqua potabile e all’elettricità a Gaza sono delle tattiche crudeli, utilizzate per far soccombere una popolazione intera, già vulnerabile per altri motivi, non soltanto Hamas. Non tutti, però, sembrano essere coscienti di come TikTok, spesso sminuito come “il social media della generazione Z”, e altri social influenzano direttamente la narrazione e la percezione che il pubblico ha del conflitto. Miliardi di visualizzazioni sono dedicate agli hashtag come “#standwithpalestine”, evidenziando la ferma opposizione di molti giovani (il 60% degli utenti del social ha tra i 16 e i 24 anni) all’oppressione. Diverse persone, nella maggior parte dei casi schierate con Israele, non hanno esitato a condividere la loro diffidenza rispetto al supporto che la Palestina riceve online.  

Per quanto si possa speculare rispetto all’utilità di avere l’opinione pubblica decentrata dalla propria parte, non si possono ignorare i trend di TikTok nati nelle ultime settimane. I video in cui alcuni utenti israeliani ridicolizzano i palestinesi ostentando acqua ed elettricità, entrambe risorse essenziali alla vita che sono state a più riprese tagliate nella striscia, manifestano che la tecnologia a volte può estraniare dall’umanità, anche tra le persone comuni e non solo da parte dei politici chiusi nelle loro stanze dei bottoni. Dal lato opposto ai creator filo-israeliani, la violenza è diventata uno spettacolo pubblico attraverso i video che circolano sui social, creando un voyeurismo violento che si diffonde come un’epidemia. Questo fenomeno, alimentato dalla fame di contenuti sensazionalistici, è una forma moderna di morbosa osservazione della violenza, sottolineando la desensibilizzazione e la perdita di empatia nella società.

L’attrattiva che ha la violenza, soprattutto quando possiamo osservarla da una certa distanza, esprime uno dei sentimenti più reconditi e dimenticati da chi vive in Paesi occidentali e moderni. Una sensazione che provano in pochi: qui gli spazi in cui senza motivo è consentito un conflitto tra gruppi sono il meno possibile. La guerra era così esplicita, grezza e violenta già prima. Prima, però, non era così facilmente reperibile (e quindi visibile) questo tipo di materiale che si palesa nella sua oscenità a un pubblico borghese occidentale in qualche modo pacificato. Oggi invece la narrazione è estesa e adottata da personaggi pubblici, ed esiste un appetito acritico e vorace per il suo consumo che si fa via via più normalizzato. Esistono pagine e giornalisti privati con milioni di follower (due su tutti EyeOnPalestine e Leila Warah) che documentano le atrocità che avvengono in Palestina, criticando il controllo e lo sfruttamento israeliano delle risorse già limitate della regione.

Accuse di propaganda e distorsione dei fatti permeano il panorama digitale, mentre le timeline di tutti i social riportano atti di violenza e di distruzione ripresi da chi, effettivamente, vive nella paura di non vedere un altro giorno. La verità è affissa ovunque, ma cosa ne facciamo noi di questa verità?

È anche questa la funzione e l’efficacia della propaganda: invischiare le persone in emozioni talmente forti da prevalere sul raziocinio, ingannando tutti ogni giorno di più.

La propaganda gioca un ruolo chiave nel perpetuare i cicli di violenza, manipolando le emozioni delle persone impedisce una valutazione obiettiva della situazione, intrappolandoci nell’ira e nell’odio anziché nel ragionamento critico. L’intervento internazionale potrebbe essere l’unica via d’uscita da questo ciclo di violenza. Ma, anche quando si riuscisse a risolvere il conflitto, rimarrebbero diversi problemi ancora più grandi alla radice, uno dei quali sarà sempre più centrale in qualsiasi conflitto dovremo affrontare in futuro, a prescindere dal fatto che le guerre a cui assisteremo siano fredde o calde: la propaganda.

Chi, come noi, almeno per il momento non è direttamente coinvolto nel conflitto, è chiamato a maggior ragione a sviluppare un senso critico e una capacità di filtrare le informazioni, con la consapevolezza che siamo tutti, sempre e comunque, vittime di bias, bolle tecnologiche e sociali, e retoriche polarizzanti.

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