La trilogia di M: l’utile, il vero e l’interessante

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Un copertina rossa con un cerchio bianco in mezzo, al centro del quale si trova la M stilizzata di Mussolini, con un lettering che richiama gli anni ’30 e il Reich. Colori e stile rimandano al nazionalsocialismo e disegnano una cover decisamente inquietante, per quello che è il terzo capitolo del progetto letterario di Antonio Scurati, ambizioso affresco narrativo dell’Italia fascista edito da Bompiani,

Un progetto complessivo su cui vale la pena fare qualche riflessione, ora che il primo volume dell’opera, Il figlio del secolo, probabilmente il più riuscito dei tre ad oggi pubblicati, sta per diventare una serie televisiva prodotta da Sky, con Luca Marinelli nei panni del Duce.

I libri di Scurati hanno avuto un grandissimo successo, sia di pubblico, sia di critica, e anche sollevato diverse critiche, in particolare perché in alcuni punti sacrificano il rigore storico e documentaristico in nome della tensione drammaturgica. Tutto vero, tuttavia M ha il pregio di riportare al centro del dibattito il genere del romanzo storico, quello che – lo diceva già Manzoni – deve essere in grado di avere «l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo». Qui, vero e interessante si mescolano in modo perfetto, tra documenti storici riportati quasi integralmente e licenze poetiche che ipotizzano in modo suggestivo tensioni psicologiche e smottamenti pulsionali dei personaggi raccontati, addentrandosi anche nelle zone d’ombra dei lati più problematici del loro privato. L’utile è soprattutto il contributo che un progetto di questo tipo, così avvincente e trascinante, può dare nel combattere uno dei grandi mali del nostro tempo, che è l’ignoranza della storia, un male che attecchisce a ogni livello, dai contesti più popolari sino alla politica, dove non si contano gli strafalcioni esibiti con raggelante disinvoltura. Tutti e tre i libri – Il figlio del secolo, L’uomo della provvidenza, Gli ultimi giorni dell’Europa – si leggono davvero d’un fiato, 

Questo terzo capitolo, che – come suggerisce la copertina – si concentra sulla relazione tra il fascismo e il nazismo e sulla sciagurata decisione di allinearsi al führer nella folle campagna antisemita, da cui le leggi razziali del 1938. Tutto giusto e tutto vero, con la solita capacità di Scurati di gestire in modo perfetto il ritmo, un’alternanza di pieni e vuoti, di lontano e vicino, in grado di risucchiare nel racconto anche i lettori meno propensi alla storia. Un bel merito, soprattutto in un paese come il nostro, dove fare intrattenimento di qualità sulla storia recente sembra un sempre un incredibile tabù. 

Su quest’ultimo volume, però, aleggia un possibile equivoco storico. Scurati, concentrandosi sulla città di Ferrara (quella raccontata anche da Bassani ne Il giardino dei Finzi Contini), porta avanti la tesi che le leggi razziali furono un clamoroso e tragico errore, compiuto da un paese che non era di per sé né razzista, né antisemita. Vero è che un romanzo storico deve necessariamente adottare una tesi e una prospettiva sul mondo che racconta, tuttavia la tesi di Scurati appare come un po’ indulgente e assolutoria, verso un paese (e un regime) che aveva comunque da anni intrapreso l’avventura coloniale e che era percosso da rigurgiti provinciali e razzisti. 

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