L’aurea mediocritas della Mostra del cinema di Venezia

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Il Festival del Cinema di Venezia occupa una posizione sempre più centrale nell’industria del cinema e nel sistema dei festival. È ormai il “trampolino” verso gli Oscar e attira produzioni sempre più grandi e importanti. Tuttavia, forse in ragione di questa ritrovata “imponenza”, la “mostra” ha in parte perso il suo ruolo di termometro del mondo e sembra parzialmente indifferente alle trasformazioni del settore. Il programma di quest’anno è apparso disconnesso dal mondo reale, con un eccesso di film di autori famosi che non rispecchiavano il loro valore storico. L’edizione appena archiviata, inoltre, ha mostrato una preoccupante mancanza di coraggio nel percorrere nuove strade nel cinema, che poi è quello che maggiormente ci si aspetta da una mostra “d’arte” cinematografica.

Il Festival del Cinema di Venezia ha presentato 23 film in concorso, un numero eccessivo secondo molti. Tra questi, alcuni sono sembrati fuori luogo, come Dogman di Luc Besson, mentre la presenza di sei film italiani è stata vista dai più come esagerata. Tra essi, Comandante di Edoardo De Angelis e Finalmente l’alba di Saverio Costanzo hanno sollevato diverse perplessità. Il film Adagio di Stefano Sollima, un crime movie con celebrità italiane come Favino, Mastandrea, Servillo e Giannini, è stato considerato un buon film di genere senza particolari sussulti, mentre Lubo di Giorgio Diritti ha ripercorso la tragedia della pulizia etnica in Svizzera agli anni ’30 ai danni del popolo Jenisch, ma è riuscito a mantenere il suo equilibrio solo grazie alla performance dell’attore Franz Rogowski. Invece, Enea di Pietro Castellitto è stato almeno un film controverso, ha suscitato in egual misura amore e odio, ma ha confermato il talento del regista romano. Infine, Io, Capitano di Matteo Garrone è stato l’unico italiano a vincere un premio, anche se ha lasciato l’impressione di non dire nulla di nuovo o particolarmente profondo sul delicato tema delle “rotte della morte” dall’Africa all’Europa.

Il resto del concorso è stato di un livello complessivo medio, ad eccezione di due autentici colpi di fulmine. Il primo è Poor Things di Yorghos Lanthimos, Leone d’oro meritato per manifesta superiorità. Il regista greco ha trovato l’equilibrio che è spesso mancato nelle sue opere precedenti tra il suo formalismo radicale e l’intensità di un racconto autentico, confezionando una fiaba nera che sembra la versione dark-punk di Barbie. Emma Stone è eccezionale nel dare corpo e sguardo a Bella, creatura assemblata dal folle e malinconico Godwin Baxter (Willem Dafoe), che ha preso una donna suicida e le ha ridato vita impiantandole il cervello del feto che aveva in grembo. In questo modo, Bella ha il corpo di una giovane adulta e il cervello di un neonato. Il film racconta la sua scoperta del mondo, la sua educazione anomala, con uno sguardo provocatorio e autenticamente femminista, inserendo il tutto in una sorta di dimensione atemporale dalle venature gotico-vittoriane e steampunk.

Fuori dal palmares, ma al secondo posto nel nostro cuore è Hors-Saison di Stéphane Brizé. Il regista francese, reduce dalla splendida trilogia sul lavoro, crea una commedia malinconica che strappa sorrisi e lacrime con una leggerezza di tocco sublime. Laurent (Guillaume Canet) è un attore di cinema in crisi di mezza età che ha appena abbandonato le prove dello spettacolo che l‘avrebbe visto debuttare a teatro e si è rifugiato in un resort in una località di mare. Qui ritrova per caso Hélène (straordinaria Alba Rohrwacher, nel ruolo migliore della sua carriera), con cui aveva avuto una relazione, finita dolorosamente, quindici anni prima. Il tempo ha cicatrizzato le ferite, ma l’incontro riapre dubbi, domande e rimpianti, perché gli amori sono anche o soprattutto una questione di tempi giusti e tempi sbagliati. Film bellissimo e commovente.

Evil does not exist di Ryusuke Hamaguchi ha vinto il premio speciale della giuria, mentre il premio della giuria per Green Border di Agnieszka Holland è stato un segnale politico importante. Tuttavia, alcuni dei grandi nomi americani come Michael Mann e Bradley Cooper hanno deluso, così come il film El Conde di Pablo Larraìn. Il premio per la miglior attrice è andato a Cailee Spaeny per la sua performance in Priscilla di Sofia Coppola, una decisione considerata incomprensibile da alcuni.

Oltre alla competizione principale, le sezioni collaterali del Festival di Venezia hanno presentato interessanti scoperte. In Orizzonti, c’era Shadow of Fire, nuovo film di Shinya Tsukamoto, che di certo non è una scoperta, e che ha portato un grande film inspiegabilmente ai margini della selezione principale. Alle Giornate degli autori, due film hanno colpito particolarmente: Vampire humaniste cherche suicidaire consentant e Quitter la nuit. La sezione “out of competition” ha presentato il gioiello Hitman di Richard Linklater, una black comedy che è un saggio di scrittura e di regia. Alcuni esordi italiani degni di nota sono stati Felicità di Micaela Ramazzotti, Gli oceani sono i veri continenti di Tommaso Santambrogio e Una sterminata domenica di Alain Parroni.

Al di là di tutto questo ci sono i numeri. E parlando di numeri, il Festival del Cinema di Venezia ha avuto un enorme successo in termini di partecipazione, rafforzando il suo ruolo centrale nell’industria cinematografica. Il festival ha registrato un incremento del 17% di presenze nelle sale rispetto al 2022, arrivando a 230.000 ingressi. I biglietti venduti al pubblico sono stati circa 85.000, con un aumento del 14% rispetto all’anno precedente. Gli accrediti ritirati sono stati 13.023, con un aumento del 9%, mentre le prenotazioni per la sezione Venice Immersive sono aumentate del 16%, arrivando a 11.232.

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