Una recensione della mostra “Play”, sull’universo dei videogiochi, alla Reggia di Venaria.
Tre miliardi di videogiocatori, praticamente un essere umano su due, e un’economia-monstre da duecento miliardi di dollari l’anno: i videogiochi non sono solo un gioco – e forse non lo sono mai stati.
La mostra “Play”, ambientata nelle sale della sontuosa Reggia di Venaria, ripercorre mirabilmente la nascita e lo sviluppo di questa industria che ha rivoluzionato il modo di intrattenere il mondo. L’esibizione fornisce uno sguardo approfondito sulla storia dei videogiochi, partendo dalle influenze dei grandi maestri del passato – come De Chirico, Hokusai, Calder, Dorè, Savinio, Piranesi, Kandinsky, Andy Warhol, fino a spingersi a vasi ellenistici del VI sec. a.C. – sulle estetiche di videogiochi come Ico, Monument Valley, Rez Infinite, Okami, Apotheon, fino ad arrivare ai giochi moderni che utilizzano la realtà virtuale per simulare anche contesti di guerra o prevenire rivolte sociali.
“Play”, arricchita da un podcast fruibile anche come stand-alone progettato dal curatore Fabio Viola, celebra anche alcune delle figure chiave che hanno realizzato i videogame più iconici della storia, siano essi veri e propri game designer come Yu Suzuki, uno dei padri del successo di Sega, scenaggiatori come Christian Cantamessa, programmatori come Andrea Pessino, musicisti come Jesper Kyd, che ha scritto le colonne sonore di Assassin’s Creed, o artisti quali Yoshitaka Amano, a cui dobbiamo le estetiche di Final Fantasy.
L’evoluzione dei videogiochi ha avuto un impatto significativo sulla cultura popolare e la società in generale. Il passaggio da giochi arcade a giochi per console domestica ha permesso alle persone di giocare da casa, e l’introduzione di Internet ha reso possibile il multiplayer online e l’accesso a una vasta gamma di giochi. Inoltre, l’uso di grafica sempre più realistica e l’utilizzo di tecnologie come la realtà virtuale hanno ulteriormente esteso le possibilità dei giochi.
La mostra esplora queste innovazioni tecnologiche e come hanno influito sul modo in cui giochiamo e ci intratteniamo. Esibisce anche i giochi più iconici e i personaggi più memorabili della storia dei videogiochi, dal Guybrush Threepwood, “temibile pirata” di Monkey Island, al recente fenomeno di League of Legends, fornendo un tuffo nella nostalgia per i giocatori di vecchia data e una prospettiva storica per i nuovi giocatori.
Tanti i temi sottesi alla mostra, su cui i giocatori meno accorti forse non si erano mai soffermati: il messaggio anti nucleare di Metal Gear Solid, le tematiche dell’orientamento di genere in The Last of Us 2, così come la propaganda di reclutamento dell’Isis nelle chat dei giocatori, esplicitati nella sezione “Play politics”, che mette in mostra e permette di giocare con l’ecologia (Flower), le rivolte popolari (Riot), la toccante esperienza dell’immigrazione di Papers, please e la sorveglianza globale (Orwell).
Non è un caso che “Play” si chiuda con la parte dedicata al saggio più iconico e influente della storia riguardo ai giochi, “Homo Ludens”, scritto da Johan Huizinga nel 1938, nell’imminenza di un’escalation che avrebbe portato l’umanità dalla dimensione del gioco al rischio per la prima volta di una mutual assured destruction. E così, mentre ci si immerge nell’ultima sala, che è in realtà la cameretta di un adolescente, per giocare a Pacman, Space Invaders e Street Fighter, l’ultima porta apre su un visore, per l’ultima evoluzione di questa storia d’amore video-ludica tra umani e tecnologia durata poco più di cinquant’anni: il Metaverso. Dove il gioco si fa business.
O forse viceversa.
Filippo Lubrano – consulente di innovazione e internazionalizzazione, fondatore di Metaphoralab.it