“Rapito”: Nessuno ancora oggi racconta il potere meglio di Bellocchio

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Presentato al festival di Cannes e appena uscito in sala, Rapito è la nuova fatica di Marco Bellocchio, un film che attraverso un episodio drammatico della storia della Chiesa imbastisce un discorso profondo sui meccanismi di condizionamento psicologico del potere.

È in sala da oggi il nuovo film di Marco Bellocchio, Rapito, che racconta una vicenda non così nota ai più: il rapimento del piccolo Edgardo Mortara, nel 1858, ad opera dello stato Pontificio su indicazione del pontefice, Pio IX.

Facciamo un po’ di ordine sulla vicenda. Pio IX, ovvero Giovanni Maria Mastai-Ferretti, è il papa più longevo della storia della Chiesa, al soglio pontificio dal 1846 fino alla sua morte nel 1878. È il Papa del Risorgimento: ha dapprima sostenuto l’unificazione italiana e poi si è opposto all’annessione dello Stato Pontificio, di cui è stato l’ultimo sovrano temporale. Ciò ha portato a una serie di attriti molto violenti con i politici del neonato Regno d’Italia, culminati nella presa di Roma nel 1870 e nella fine dello Stato Pontificio stesso. Durante il suo lungo pontificato, Pio IX si è battuto a difesa dei principi cattolici tradizionali ed è stato uno strenuo sostenitore dell’infallibilità papale, dogma proclamato durante il Concilio Vaticano I nel 1870 che stabilisce che il Papa è immune dall’errore quando parla “ex cathedra” su questioni di fede e morale. Più di ogni altra cosa, però, c’è un’espressione latina che fotografa perfettamente il suo pontificato: “non possumus”. Questa espressione, non a caso, avrebbe dovuto essere il titolo del film di Marco Bellocchio, poi cambiato in Rapito. Queste due parole vengono pronunciate da Papa Pio IX proprio in relazione al caso di Edgardo Mortara, rapito dalla polizia dello Stato pontificio nel 1858 perché segretamente battezzato da una domestica cattolica senza il consenso dei suoi genitori e senza che loro ne fossero a conoscenza, per salvarlo da una malattia che avrebbe potuto ucciderlo.  Quando la notizia del suo battesimo raggiunge le autorità ecclesiastiche, Pio IX fa prelevare con la forza il bambino alla sua famiglia e lo tiene sotto la sua protezione a Roma, rendendolo, di fatto, un vessillo del suo assolutismo ideologico.

“Non possumus”. È la risposta di Pio IX agli appelli di numerosi governi ebraici e di sostenitori dei diritti umani che chiedevano il ritorno di Edgardo alla sua famiglia. “Non possumus”. Così il Papa dichiara che semplicemente non “può” cedere alle richieste, perché ritiene che il battesimo abbia fatto di Edgardo un cristiano e quindi debba essere educato come tale. Non si può, “non possiamo” fare diversamente, insomma, per il dovere morale di preservare il giovane dallo sprofondo nel Limbo di color che son sospesi. Il “caso Mortara” ha lasciato un’impronta significativa nella storia delle relazioni tra la Chiesa e la comunità ebraica e la frase “non possumus” continua ad essere associata a questo controverso episodio. Non solo: la vicenda fu vista come un esempio di intromissione della Chiesa nello stato civile e nella sfera familiare, suscitando dibattiti sulle questioni di tolleranza religiosa, diritti dei genitori e la separazione tra Chiesa e Stato. Questa premessa è necessaria per rispondere a una domanda: perché raccontare “ora” la storia di Mortara e del suo rapimento? Che cosa, in questa storia, oggi ci ri-guarda da vicino? 

Raccontare in modo critico la Chiesa, in Italia, è sempre operazione complessa, metterla in discussione è come “fare a meno del padre”. E come dice Lacan, si può fare a meno del padre, a condizione di farsene qualcosa. E quindi, che farsene di questo Rapito, di Marco Bellocchio? C’è indubbiamente una questione di approccio che rende Rapito, trentunesimo lungometraggio di Marco Bellocchio, scritto a quattro mani con Susanna Nicchiarelli e presentato in concorso al Festival di Cannes, un film universale e per questo anche molto attuale.  Bellocchio e Nicchiarelli si sono ispirati per la sceneggiatura al libro di Daniele Scalise, “Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa” (Milano, Mondadori 1996), che ricostruisce in modo puntuale la vicenda e lo fa proprio negli anni in cui Giovanni Paolo II avvia il controverso processo di beatificazione di Pio IX (avvenuta nel 2000), e ne hanno ricavato un testo potente, che si muove tra le stanze dello Stato Pontificio proprio nel momento cruciale della sua millenaria storia: cioè poco prima che, con l’imminente Breccia di Porta Pia, il potere temporale del papato si riduca drasticamente. Proprio in quel momento, accade qualcosa che sembra interessare a Bellocchio più di tutto il resto: vengono messe in atto una serie di strategie per rafforzare in modo sottile ma anche brutale un sistema di potere ben più importante e condizionante di quello materiale, cioè quello ideologico, che passa anche e soprattutto dalle istituzioni che che ne costituiscono la pervasiva ramificazione: la famiglia, lo Stato, la Chiesa. 

In Rapito, l’espressione “non possumus” diventa un simbolo, il significante che rimanda in modo violento a un significato che ha una posta più grande e universale del solo caso Mortara e dell’inflessibilità religiosa: è la condensazione di ogni forma di potere assoluto, che legittima e giustifica se stesso attraverso l’assurda inscalfibilità di precetti ribaditi con tale forza da essere interiorizzati e apparire eterodiretti, provenienti da un’entità superiore e tali da annientare moralmente ogni forma di dissenso ideologico. Un potere che, come tutti i sistemi assoluti, fa leva sul condizionamento psicologico, sul senso di colpa, su quella dimensione di inadeguatezza che mortifica il dissenso e spinge a una dipendenza illimitata. Se il Cattolicesimo è (anche) questo, in fin dei conti lo è ogni struttura ideologica, anche laica, che si fa Chiesa e si fa dogma, e quindi il film di Bellocchio passa dall’essere un semplice film su un episodio della storia della Chiesa a essere un’opera complessa e stratificata sui dispositivi che consentono al potere di conservare se stesso. Per questo Rapito è un film così plumbeo, un melodramma che tracima nel thriller e addirittura nell’horror (in costume).  Lo è in prima battuta nelle immagini scure e cupe, che anche quando sono diurne sembrano illuminate da una luce sinistra e dissonante e in cui il dinamismo della macchina da presa di Bellocchio ha questa volta qualcosa di schiacciante e soffocante. Lo è anche per la potenza “nera” di alcune scene, al solito nel cinema di Bellocchio spiazzanti proprio là dove spingono sull’onirico e sul paradosso. In una delle più potenti e grottesche del film, assistiamo a un sogno di Edgardo. Il giovane si arrampica su un enorme statua di Cristo per togliere dalle mani del suo “nuovo Dio” i chiodi con cui gli ebrei – quindi la sua famiglia di origine – l’hanno ucciso. In una sola scena provocatoria, percepiamo il dramma del “lavaggio del cervello” cui è sottoposto Mortara, che tenta nel profondo del suo inconscio di emendare la colpa, sua e della sue gente, e di realizzare in qualche modo un’impossibile ricomposizione.

Spesso il film gioca con rimandi e simmetrie narrative, come in un’altra scena potente, il momento in cui il papa nasconde scherzosamente Edgardo nel suo mantello mentre gioca a nascondino, costituendo uno straordinario parallelo con quando, poco prima, si era nascosto allo stesso modo per la prima volta nelle gonne di sua madre. C’è sempre un telo, insomma, che vela l’identità di Edgardo, che lo copre e gli nasconde il mondo. Un velo che protegge, certo, ma che in qualche modo, come dice il titolo, rapisce e sottrae il soggetto alla pienezza della propria identità. Proprio la scena del rapimento, all’inizio del film, è una delle più brutali e asciutte mai girate da Bellocchio, così come il raggelante epilogo, che non sveliamo, e che chiude in modo drasticamente circolare il lungo e traumatizzante viaggio di Edgardo dalle mani della sua famiglia a quelle di Pio IX, interpretato da un perfido Paolo Pierobon, in un cast complessivamente eccellente: Enea Sala e Leonardo Maltese interpretano Edgardo bambino e poi adulto, e Fausto Russi Alesi e Barbara Ronchi interpretano i genitori addolorati e disperati del ragazzo. Fabrizio Gifuni è il gelido inquisitore bolognese Padre Feletti. Bellocchio ha dichiarato di non avere avuto intenzione di fare un film politico. Inevitabile, però, che un’opera come questa, potente e barocca nella forma e decisamente provocatoria e brutale nel suo contenuto, non possa che essere “molto” politica, nel senso anche e soprattutto di un pretesto comune per un dibattito allargato sui meccanismi che il potere usa per condizionare le coscienze e preparare il consenso. 

Se il pontificato di Francesco sembra andare con passo lento nella direzione di un alleggerimento dogmatico, verso l’apertura alla diversità e al dialogo interreligioso, il vento politico che soffia in gran parte del mondo occidentale è invece quello del cattolicesimo reazionario, del tramonto della laicità dello stato liberale e del ritorno al dogmatismo conservatore. Quest’opera ci ricorda che non c’è nulla di più efficace di un sistema egemonico che fondi i suoi presupposti sull’inoculazione sistematica del senso di colpa e lo fa in un momento storico in cui il recupero di un oscurantismo che sembrava tramontato, volto a ledere diritti civili faticosamente guadagnati, rischia di essere un veicolo che ci riporta pericolosamente indietro nel tempo. Ce lo ricorda Marco Bellocchio, anni 83, che continua a fare cinema con più energia di buona parte dei suoi colleghi più giovani.

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