Seaspiracy e il documentario (in)sostenibile

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Seaspiracy è l’ennesimo documentario à la Michael Moore che affronta temi ambientali agitando il complotto. A chi giova questa narrazione della sostenibilità?

È il 23 maggio del 2004, siamo a Cannes. Al Théâtre Lumière, la giuria della 57a edizione del Festival di cinema più prestigioso del mondo, presieduta nell’occasione da Quentin Tarantino, assegna la Palma d’oro a Fahrenheit 9/11 di Michael Moore: è la seconda volta che un documentario si aggiudica il massimo riconoscimento assegnato sulla Croisette (dopo The Silent World di Cousteau nel 1956). Il successo a Cannes, preceduto dalla standing ovation che il film riceve alla proiezione ufficiale, crea i presupposti per il trionfo al box office del film in tutto il mondo occidentale. Il documentario diventa così, in qualche misura, un genere mainstream, con immediati ed evidenti effetti benefici sulla circolazione e sulla distribuzione di importanti opere successive, che entrano in un circuito spesso difficilmente accessibile alla forma-documentario. Questa medaglia ha tuttavia anche un suo rovescio: l’impianto retorico del film di Moore si poggia su una struttura dialettica manipolatoria e semplicistica, che è però proprio uno dei motivi per cui il film ottiene tanta visibilità e tanti facili consensi, e che purtroppo diventa, proprio per il suo sensazionalismo spiccio, un modello da replicare e da imitare. Il regista americano, in Fahrenheit 9/11 esaspera alcune caratteristiche già evidenti nei suoi film precedenti, soprattutto in Bowling a Columbine: lavora abbondantemente con la voce fuori campo ma lo fa in modo moralmente discutibile, plagiando il senso delle immagini fino a impressionanti forzature (si veda la celebre sequenza iniziale di George W. Bush che legge, secondo Moore, “la mia capretta” durante l’attacco alle Twin Towers), gioca sporco troncando a suo piacimento interviste e dichiarazioni che raccoglie spesso in modo poco trasparente, indulge a una retorica a tratti stucchevole, tutta di pancia (si veda la sequenza indigesta della madre del soldato morto che nonostante tutto lo ricorda issando ogni mattina la bandiera americana). Il risultato di questa operazione è che tutto rimane in superficie e che chi si accosta al documentario “già convinto” della tesi di Moore, cioè che l’amministrazione Bush sia quantomeno opaca, vede incrementare la propria indignazione oppure prova un certo imbarazzo per il semplicismo delle argomentazioni, mentre chi invece si approccia da una prospettiva opposta certo non cambia idea o non trova comunque spunti per riflettere. Insomma, il documentario egocentrico à la Michael Moore non riesce e non può spostare di un millimetro le opinioni del pubblico. 

​Sono partito da Moore perché secondo me c’è una linea – nemmeno troppo sottile – che porta da quei fatti del 2004 fino al recente filone “sostenibile” dei documentari targati Netflix, di cui molto si parla in queste settimane dopo l’uscita di Seaspiracy, film che si concentra sull’industria della pesca commerciale e su come le risorse degli oceani si stiano esaurendo e che si accoda, come una sorta di sequel, al famoso Cowspiracy, che invece racconta gli effetti disastrosi dell’intensificazione dell’agricoltura animale. Chiariamo un punto: ci sono molte questioni ambientali “fuori dalla vista e lontano dal cuore”, cui le persone possono essere in linea di principio sensibili, ma con cui non sono emotivamente connesse perché “non vedono” quel problema da vicino. La necessità, quindi, è duplice: informare e accendere l’empatia, creare consapevolezza e al tempo stesso sottolineare come questi fatti, anche quelli invisibili o apparentemente lontani, ri-guardino tutti da vicino. La domanda non banale di fondo, però, soprattutto in un momento come questo in cui i temi legati alla sostenibilità sono tanto ineludibili quanto trendy, è: questo assunto di partenza rende automaticamente meritevole di considerazione qualsiasi operazione tenti di dare visibilità e attenzione a tali questioni? Può spingerci a considerare giusti e sensati tutti gli approcci? Sono convinto che la risposta sia no, e che l’approccio ego-riferito, sensazionalistico e inevitabilmente semplicistico che i documentaristi Kip Andersen e Keegan Kuhn utilizzano per Cowspiracy e Ali Fabrizi per Seaspiracy sia totalmente inadeguato. 

​Concentriamoci sull’ultimo arrivato nel palinsesto Netflix, Seaspiracy, pubblicato lo scorso 24 Marzo. Purtroppo, l’esperienza pandemica che abbiamo vissuto negli ultimi 18 mesi ha mostrato come il format del complottismo sia penetrante ed efficace, tanto da essere diventato, ormai da anni, un investimento sicuro per chi desidera una cassa di risonanza facile (il che spiega anche il successo di personaggi altrimenti indefinibili come Diego Fusaro). Seaspiracy prende gli strumenti consolidati e diffusi da Moore ed epigoni e li intinge nel macro ambito della sostenibilità, per far leva, già dal titolo, in primo luogo su questo elemento “cospiratorio”, creando un percorso logico tanto seducente quanto pericoloso. Il film, infatti, prima ci fa avvertire una giusta misura di senso di colpa e sgomento per la catastrofe imminente, poi però, per bocca del suo regista, sempre al centro della scena, parla a noi spettatori in modo indulgente e rassicurante, quasi ci assolve. I cattivi non siamo noi, allora, per noi c’è redenzione, il nemico sta al di là, ribadisce con enfasi crescente il regista inglese, tanto che, come ha giustamente scritto Ferdinando Cotugno su Rivista Studio, «ogni tanto verrebbe da dire a Tabrizi quello che Dino Risi diceva a Nanni Moretti: spostati e facci vedere i pesci”». Si rivolge a noi in modo mellifluo, ci porta dalla sua e poi bastona “i cattivi”, quelli veri, con fare perentorio. Del resto, già il titolo allude a una grande cospirazione di cui noi che guardiamo siamo le vittime, mentre il nemico è altrove e ovunque: questo scarto ci regala quindi un inevitabile senso di appartenenza, cementato dall’indignazione facile che le tonnellate di dati (peraltro in parte smentiti da diversi fact checking) che ci vengono rovesciati addosso senza sosta contribuiscono a creare, uno sdegno tutto di pancia, senza che mai il film provi a condurci verso un approfondimento o verso una riflessione. 

Seaspiracy è quindi un’opera drammaticamente riduzionista, un documentario fast food circondato da un vuoto pneumatico che deliberatamente occulta la complessità del problema e che ha preteso e ottenuto un risultato semplice, cioè che molte persone abbiano impugnato i loro account social, taggando il film, per annunciare che non mangeranno più pesce e per scomunicare chi, persone malvagie ed egoiste, continuerà a farlo. Intanto, però, il sistema economico neoliberista, che ci ha garantito quella rapida crescita economica di cui godiamo da decenni nel mondo sviluppato, noncurante di queste schiere di spettatori stizziti, continua a prosperare senza che i documentari della grande N si azzardino a metterlo in discussione. Il sospetto, insomma, è che questo sia il modo peggiore per raccontare la sostenibilità: non fa informazione, non smuove gli scettici, scuote solo la superficie delle coscienze degli spettatori mainstream che, come tutti, hanno bisogno di sedare qualche senso di colpa.

​“Il fine giustifica i mezzi”, potrebbe dire qualcuno. Oltre al consolidamento dell’effimera fama dei propri creatori e alla diffusione degli abbonamenti delle piattaforme che li ospitano, qual è davvero il fine che questi lavori si pongono?

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