Che cosa sono tre minuti? Un lasso di tempo indicativo per dire poco, breve, veloce, quasi insignificante. “Te lo spiego in tre minuti”. “Ci vediamo fra tre minuti”. “Dammi solo tre minuti”. Quante volte è capitato di dirlo in una conversazione? Eppure, i tre minuti del documentario della giornalista e cineasta olandese Bianca Stigter, già presentato a Venezia fuori concorso alle “Giornate degli Autori” e uscito ora nelle sale italiane in occasione della Giornata della Memoria, sono un frammento d’eternità.
Three Minutes – A Lengthening (Tre minuti – un allungamento), questo il titolo, prende vita da un girato amatoriale di tre minuti e poco più, ritrovato in un vecchio armadio da Glenn Kurtz nella casa dei suoi genitori in Florida. Si tratta delle riprese che suo nonno David, ebreo polacco emigrato negli Stati Uniti agli inizi degli anni Trenta, ha fatto nel 1938 in occasione del suo viaggio in Europa per visitare il paese natale: Nasielsk. Tre minuti di immagini per lo più a colori, che ritraggono gli abitanti di questa cittadina polacca con una componente ebraica notevole a cinquanta chilometri da Varsavia, poco prima che la furia nazista ne cambiasse per sempre la storia.
Bianca Stigter ci porta subito all’interno di questi tre minuti, senza dare grandi spiegazioni e per tutta la durata del film non si vedranno che quelle immagini, analizzate, dilatate, riproposte fotogramma per fotogramma, zoomate su sorrisi e dettagli e commentate da Glenn Kurtz, con la voce narrante di Helena Bonham Carter e alcuni testimoni del tempo. Proprio a questa operazione chirurgica di ricerca e restauro della pellicola, solo all’apparenza noiosa e ripetitiva, viene affidata la forza narrativa dell’intero documentario, in un processo di vera e propria educazione allo sguardo. È un crescendo di coinvolgimento dello spettatore che viene intercettato dagli occhi della folla ripresa all’uscita dalla sinagoga nella piazza del paese, davanti al negozio di alimentari, quasi un’onda di visi che seguono quell’oggetto sconosciuto che li sta filmando. Da un anonimato che si fa via via più intimo con l’addentrarsi nei particolari, i fermo immagine sui gesti o le espressioni, l’indagine minuziosa dello stupore di chi guarda in camera, ci troviamo a scavare nel percorso esistenziale di bambini e adulti che sembrano chiederci, da un altrove che appartiene a tutta l’umanità, di non dimenticare.
Sono uomini, donne, ragazzi e ragazze che ridono, scherzano, che si mescolano facendo a gara a chi si fa inquadrare dalla piccola macchina da presa (una Kodak 16 mm) senza sapere che di lì a poco più di anno, quando le truppe hitleriane invaderanno la Polonia, verranno rastrellati, uccisi o condotti nel Ghetto della capitale e successivamente deportati e mandati a morire nelle camere a gas. L’unica persona ancora in vita tra gli inquadrati, di cui ascoltiamo la voce nel film, è Maurice Chandler che ci fa rivivere la sua personale storia, raccontandoci di una quotidianità di prima dell’Olocausto intrisa della felicità delle piccole cose: severe ammonizioni per non aver indossato il copricapo, innocenti giochi coi sassi e irriverenti scherzi coi bottoni. Proprio i bottoni, che erano alla base dell’economia della cittadina, un oggetto che nel tempo è stato soppiantato da più veloci cerniere, in una accelerazione dell’esistenza che ormai fagocita tutti, sembrano essere, insieme a tanti altri particolari che emergono dal girato, ambasciatori di un messaggio che non possiamo ignorare. Negli anni ‘40 un uomo indossava circa 70 bottoni sul proprio vestiario, oggi sono meno della metà. Riporre con cura nell’asola del presente il bottone della storia può darci la forza per costruire una nuova coscienza al riparo dai gelidi orrori del passato. Bianca Stigter è riuscita a farci riflettere su quanto i tre minuti possano nascondere, come un tesoro da restaurare, quella lentezza dei bottoni che certi momenti bui della nostra umanità necessitano per essere analizzati e compresi.
Lo si vede bene nel fermo immagine sulla piazza vuota, sottolineato da un fastidioso suono di sirena all’inizio, che accompagna il racconto di quanto accaduto, proprio lì, il 3 dicembre del 1939. Per otto interminabili minuti lo sguardo entra nel fotogramma che si ingrandisce fino a diventare un indistinto ammasso di puntini, mentre la voce narrante legge, da una testimonianza ritrovata nascosta nel Ghetto di Varsavia, come è avvenuta la deportazione degli ebrei di Nasielsk. La stessa sinagoga, da cui abbiamo visto uscire gioiosi gli abitanti della cittadina nel documentario amatoriale di David Kurtz, diventa campo di concentramento momentaneo, con centinaia di persone rinchiuse per giorni senza cibo né acqua. Ed è al fermo immagine dell’entrata della Sinagoga che il fotogramma di prima ritorna, dall’ingrandimento esasperato e confuso di una porzione di piazza ottenuto con un lento zoom in, si esce dall’indeterminato con uno zoom out e si riconoscono i dettagli, il portone, la gente, i volti. Tutto immobile sullo schermo. Solo il racconto scorre dentro chi ascolta. Una dilatazione spaziale e temporale per lasciare il passo a una nuova consapevolezza che Bianca Stigter ha affidato a una indagine storiografica fatta attraverso poche immagini. Sempre le stesse. Mai uguali.
Three Minutes – A Lengthening (Tre minuti – un allungamento) è un frammento di eternità, un pezzo di un puzzle della memoria che non deve perdersi, ancor meno in questi tempi difficili per l’Europa. Forse proprio per questo il film è stato inserito sul sito web dell’Holocaust Memorial Museum di Washington, perché ogni inquadratura possa rappresentare la differenza tra la vita e la morte, tra la memoria e l’oblio.
Dopo aver letto questo articolo è indispensabile guardare il documentario. Perdonare, si’ ma dimenticare, mai. ⭐️⭐️⭐️⭐️⭐️