Tutta la bellezza e il dolore è il documentario vincitore del Leone d’Oro a Venezia di Laura Poitras, regista premio Oscar dietro progetti audaci come Citizenfour (2014). Poitras inizia a lavorare con la fotografa e attivista Nan Goldin nel 2019 con un intento d’inchiesta sulla crisi di oppioidi in America che continua a mietere migliaia di vite ogni anno.
Tutta la bellezza e il dolore è il mondo visto attraverso la fotocamera e gli occhi di Nan Goldin. La fotografa decide di attaccare lo stesso mondo dell’arte che lei ha dovuto scalare con le unghie e con i denti attraverso le manifestazioni sovversive contro la famiglia Sackler, all’interno dei templi artistici più importanti del mondo occiddentale. Il documentario di Laura Poitras intreccia le confessioni private della fotografa all’impegno oppositivo della P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now), due narrazioni che appaiono indissolubilmente legate fin dai primi aneddoti raccontati da Goldin. Il documentario ci rende testimoni della storia americana di oppressione e manipolazione: un domino di diapositive che ci racconterà tutti gli eventi che, in retrospettiva, sono sintomi di quella che sarà una vera e propria epidemia di oppioidi. L’unione di due mezzi diversi – il cinema e la fotografia – raccontano una donna e una comunità che combatte per la sopravvivenza: prima la sorella Barbara e i suoi rimpianti, poi la scena del downtown New York, l’Aids, la dipendenza, l’OxyContin e la P.A.I.N.
Memoria tra la pellicola e la realtà
Tutta la bellezza e il dolore si rivela gradualmente un progetto sempre più ampio e complesso. Quella che all’apparenza sembra la biografia di un’artista scomoda che ha ritratto i volti della New York dei gay bar e delle drag queen degli anni ‘70 e ‘80, che ha fotografato il corpo umano e l’ha reso espressione pura, si apre poi ad una narrativa di repressione, censura, potere e dipendenza.
Le vicende biografiche di Nan Goldin iniziano dalla gioventù e dalle foto di famiglia. La figura di Barbara, la sorella maggiore della fotografa, appare sullo schermo accompagnata dai ricordi di Nan Goldin. Barbara era una ribelle, e Goldin vede nel suo suicidio il terrore che la società ha delle donne, della loro voce, delle loro pulsioni e delle loro passioni. Il tentativo di ribellione di Barbara Goldin è stato soffocato sia dai genitori – in un contesto in cui l’ideale della famiglia tradizionale americana crolla su se stessa – che dalle diagnosi di malattia mentale. Prima ancora di poter vedere le foto scattate da Nan Goldin, durante una sequenza di immagini appartenenti alla sua infanzia, la fotografa dichiara il suo intento onnipresente di dare corpo e volto allo stigma, di lavorare attorno a ciò che viene nascosto e che porta le persone alla distruzione.
La voce di Nan Goldin ci accompagna per tutto il film, mentre scorrono, uno dopo l’altro, alcuni slideshow tratti dall’enorme corpus di foto e materiali della fotografa. Ripercorriamo quella che viene solitamente etichettata come una sorta di “storia alternativa” dell’America, le comunità ai margini che hanno accolto Goldin e che lei ha ritratto attraverso centinaia di scatti rubati ma pregni di un senso di familiarità. Quella che all’apparenza è una vita di eccessi, assume attraverso lo sguardo di Nan Goldin – e Laura Poitras – l’aspetto del desiderio di sicurezza e libertà che la fotografa non ha trovato nel contesto familiare.
La narrazione di Nan Goldin si spezza, si concede di giocare tra presente e passato, tra ricordi e storie. L’intero film è un continuo intercambiarsi tra ciò che è su pellicola, per sempre, e ciò che è effimero, reale: la ricostruzione di una vita dietro le foto. Goldin ci confida una chiave di lettura proprio all’inizio del documentario, delle parole che si riveleranno fondamentali per la comprensione della relazione che il film costruisce tra immagini e realtà: “è facile ricostruire la propria vita in storie, ma è più difficile mantenere i ricordi reali. La differenza tra la storia e il ricordo reale, l’esperienza reale ha un odore ed è sporca e non è confezionata da finali semplici”.
I volti e i corpi fotografati da Nan sono pezzi incompleti e il documentario non vuole ricostruire una verità o dargli un senso. Sono veicoli dell’esperienza di Nan Goldin, frammenti che tradiscono, sconvolgono e talvolta ingannano: le foto nel documentario appaiono più sporche della vita stessa.
Arte contro arte
Nel 2018 Nan Goldin, sopravvissuta ad un’overdose accidentale e da una dipendenza da OxyContin, pubblica su Artforum un pezzo intitolato “Growing P.A.I.N.”. Assieme ad altri attivisti fonda P.A.I.N. con l’intenzione di portare alla luce gli scheletri nell’armadio della famiglia Sackler, proprietaria della casa farmaceutica Purdue Pharma, l’azienda che produce l’antidolorifico OxyContin, colpevole di aver incoraggiato la prescrizione e agevolato la diffusione di farmaci che creano dipendenza.
La P.A.I.N. organizza quindi un attacco all’immagine e alla reputazione filantropica della famiglia Sackler che all’interno del documentario acquisteranno un volto solo alla fine. La storia della Nan Goldin attivista ha un aspetto in sé più corale in cui ritroviamo gli echi dell’angoscia e la rabbia delle proteste durante l’emergenza Aids. Se negli anni ‘90 assistiamo a tentativi di censura da parte del mondo dell’arte sull’opera di Goldin, ora è la stessa Goldin ad attaccare il mondo dell’arte per essere complice nella morte di migliaia di persone.
Tutta la bellezza e il dolore è un racconto visivo che esplora a fondo il concetto di potere in tutte le sue forme: il potere istituzionalizzato, il potere capitalista, il potere violento, il potere sotto mentite spoglie e, infine, il potere dell’immagine.