Quanto avvenuto al Lawrence Livermore National Laboratory, in California, lo scorso 5 dicembre, e annunciato ufficialmente una settimana dopo, è il passo avanti che aspettavamo da decenni nell’ambito della produzione di energia pulita. La fusione nucleare ci permette infatti di poter sognare di produrre energia in maniera del tutto sostenibile, senza i tipici problemi delle centrali nucleari – dette “a fissione” – come le abbiamo sempre intese.
Nel National Ignition Facility del Livermore 192 laser giganti hanno concentrato i loro raggi per far esplodere un piccolo cilindro delle dimensioni di una gomma da matita che conteneva una protuberanza congelata di idrogeno racchiusa in un diamante. Per un breve momento della durata di meno di 100 trilionesimi di secondo, 2,05 megajoule di energia hanno bombardato la pallina di idrogeno. Ne è uscita un’ondata di particelle di neutroni – il prodotto della fusione – che trasportava circa 3 megajoule di energia, per un fattore di guadagno energetico di 1,5.
Al di là del risultato in termini energetici poco più che trascurabile (sarebbe sufficiente ad alimentare un asciugacapelli per poco più di mezzora), il Livermore ha ottenuto quindi con successo la prima reazione di fusione in un ambiente di laboratorio che ha prodotto più energia di quella necessaria in input per avviare la reazione stessa. Un salto in avanti con valenza oltre quella simbolica dell’esperimento, peraltro ottenuto con un costo di produzione piuttosto elevato, se si considera che da quando il centro è stato aperto, nel 2009, il governo federale ha immesso finanziamenti per tre miliardi e mezzo di dollari.
Ma se e quando questo tipo di tecnologia potrà essere dispiegata su larga scala, offrirà una fonte energetica priva dell’inquinamento e dei gas serra causati dalla combustione di combustibili fossili e delle pericolose scorie radioattive create dalle attuali centrali nucleari, che utilizzano la scissione di uranio per produrre energia.
Secondo Kimberly S. Budil, direttrice del Livermore, potrebbero però volerci “decenni” prima di poter utilizzare questa tecnologia su scala mondiale. “Almeno un paio”, dice, riducendo comunque significativamente le ultime stime in merito, che parlavano di un futuro distante 50-60 anni.
Cosa possiamo fare dunque in questo paio di decenni che ci dividono dalla possibilità di creare un quantitativo potenzialmente infinito di energia, liberandoci dal giogo geo-politico che ha animato e continua ad animare i conflitti più recenti?
Innanzitutto, cambiare nome all’energia stessa. Per quanto tecnicamente continui a includere il nucleo degli atomi, per cui sia “nucleare” che “atomica” sarebbero aggettivi sensati da utilizzare da un punto di vista etimologico per descrivere questa nuova tecnologia, smarcarsi da queste etichette permetterebbe al pubblico di riceverla con molti meno pregiudizi. Ora, il processo di fusione nucleare è lo stesso alla base del motivo per cui il sole e le altre stelle brillano nel cielo, liberando un quantitativo enorme di energia (la stessa energia derivante dalla fusione di atomi di idrogeno ed elio che permette d’altronde la vita sulla Terra, dalla fotosintesi in avanti). Essendo lo slot “energia solare” già preso in tempi non sospetti, un nome più consono ed evocativo per ribrandizzare questa tecnologia potrebbe allora proprio essere “energia stellare”.
Una denominazione che potrebbe far leva sulla fascinazione globale per l’astronomia – e, ancor di più, l’astrologia – e che potrebbe consegnare meglio agli abitanti del pianeta la sensazione di un tipo di energia totalmente nuova, e scevra dagli spettri di Hiroshima, Chernobyl e Fukushima.
Al giorno d’oggi ahimè anche le scoperte scientifiche necessitano di un labor limae di marketing per ottenere un’accettazione diffusa tra tutti i ceti della popolazione e porre le basi di un’applicazione su larga scala. Per affinarla abbiamo ancora tempo – circa una ventina d’anni, almeno –, ma meno durerà la finestra di ambiguità tra la fissione e la fusione, entrambe purtroppo “nucleari”, più semplice sarà la divulgazione nei lustri a venire.
Filippo Lubrano, ingegnere, fondatore di Metaphoralab.it