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Le 10 migliori esperienze di Venice Immersive

Lettura da 16 minuti

La nostra selezione delle esperienze di realtà virtuale e aumentata dal Festival di Venezia, che ha il catalogo più ampio al mondo.

Venezia s’immerge, e non è certo una novità, ma una volta l’anno lo fa nella realtà virtuale. VeniceImmersive è la selezione di esperienze VR più esaustiva e prestigiosa al mondo, e anche questa volta, alla sua ottava edizione, si conferma come tale, con proposte di altissimo livello, provenienti da tutto il mondo, e in alcuni casi sconvolgenti dal punto di vista emotivo.

Lo sguardo delle esperienze di Venice Immersive spazia dal mondo strettamente VR a quello XR, di “extended reality”, con video 360, altri a 3 o 6 gradi di libertà (le possibilità di movimento nello spazio) e vere e proprie installazioni, dispiegando un esercito di giovani “maschere” molto solerti a coadiuvare e facilitare l’ingresso nelle esperienze dei singoli fruitori.

Nel corso dei dieci giorni del Festival di Venezia ho avuto modo di provare tutte le esperienze sia tra quelle in gara che quelle fuori concorso, e pertanto vi elenco qui a mio insindacabile giudizio le 10 migliori, che mi hanno toccato e coinvolto di più personalmente.

10: Empereur

Produzione franco-tedesca diretta da Marion Burger e Ilan Cohen, si basa sull’intuizione geniale di utilizzare quelli che sono oggi ancora i limiti tecnici dei visori e dell’hand tracking  a proprio favore, per restituire una rappresentazione accurata del decadimento psicofisico di un uomo colpito da un ictus che l’ha portato all’afasia. L’esperienza, il cui design è minimale e per cui si è scelta la trasposizione in bianco e nero, risulta estremamente poetica e toccante, e fa breccia nel suo intento, quello di far vivere sulla propria pelle il disagio di un uomo che non riesce più a rapportarsi con il mondo intorno, e in primis con la propria figlia.

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9: Floating with spirits

Una produzione belga per raccontare la storia degli antenati di Oaxaca, in Messico. Si parte con una ricostruzione fotogrammetrica di un cimitero locale, per poi finire a inseguire in un viaggio mistico gli spiriti della tradizione, con una modalità tecnicamente molto semplice (particelle che compongono e disfanno i contorni di oggetti, paesaggi e persone), ma al contempo evocativa e convincente. 

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8: Forager

Non poteva mancare un trip nel mondo dei funghi, e in particolare nei loro miceli. E la suggestione non poteva che venire dalla patria della cultura micologica, gli Stati Uniti. Un’esperienza breve (8’) ma intensa, quella disegnata dai newyorkesi Winslow Porter ed Elie Zananiri, che unisce all’esperienza col visore un allestimento funzionale ad aumentare ulteriormente l’immersività. Ci si sdraia su una seduta orizzontale, e da lì ci si muove a esplorare un movimento costruito in 4 fasi, dalle spore alla decomposizione, coadiuvati da un sistema che riproduce gli odori e da un ventilatore che ci fa soffia in faccia facendoci volare e disperdere come le spore nella foresta. Esperienza essenzialmente passiva, con un piccolo grado di interazione nel disegno delle radici del micelio con l’hand tracking. Nel complesso, un esperimento ben riuscito.

7: My name is 090

Viene dalla Corea del Sud l’opera che traspone gli incubi distopici di Kazuo Ishiguro nel suo riuscito romanzo Klara in esperienza immersiva. Il protagonista, qui, a differenza del robot dell’autore giapponese è un cane-robot, che si aggira in un futuro angosciante in cerca di ricarica per la sua batteria, e con cui si genera un immediato senso di empatia antropomorfica. La ricostruzione degli ambienti non è ai livelli del Finns di Complex7 (che non cito in questa classifica solo perché esperienza di VRChat, dove le interazioni sono limitate e la loro qualità dipende dagli avventori con cui ci si trova a viverla), ma è comunque molto apprezzabile. L’asse coreano-giapponese sul tema dei robot, nelle due società che sono più propense a utilizzarli, funziona molto bene per consegnarci uno spunto di riflessione importante sul futuro delle civiltà gerontocratiche, inclusa la nostra.

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6: Remember this place

Progetto che guarda alla Palestina, ma trainato da fondi del Qatar e da una regista spagnola, Remember this place (e le sue coordinate) è un riuscitissimo modo di farci vivere la realtà dei territori occupati. La ricostruzione delle texture è molto gradevole, e la scelta di utilizzare semplici ricostruzioni LIDaR aiuta sia nei tagli di budget che nell’aggiungere evocatività all’esperienza, che racconta le storie di donne spesso costrette a emigrare dai loro villaggi, in alcuni casi rasi al suolo, e che faticano ora a sentirsi a casa in qualsiasi altro contesto. Interessante, anche se elementare, l’espediente narrativo del taccuino da tenere in mano dove compaiono le storie delle donne protagoniste. Bellissima infine la sfera che si può ammirare all’inizio dell’esperienza, con le miniature di luoghi e città.

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5: Gaudì, l’atelier du divin

Esperienza che sostiene e incoraggia la compresenza di più persone contemporaneamente all’interno dello spazio, il lavoro franco-giapponese è tra i meglio riusciti nel suo genere, che è anche e soprattutto divulgativo. La narrazione parte da un Gaudì sul letto di morte, e si rivolge a noi che siamo chiamati a esserne gli eredi, portando a compimento il senso della sua opera. Dagli inizi con il mecenate Guell, ai decori di casa Batllo, fino all’immancabile Sagrada Familia, quest’opera su Gaudì convince anche per i cambi di scena sempre estremamente spettacolari. 

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4: Sen

Dal regista giapponese Keisuke Itoh, vecchia conoscenza del Venice Immersive, nasce questa volta una maniera intelligente e delicata di far rivivere e rinnovare la tradizione della cerimonia del tè. I fruitori, a gruppi di tre, sono incoraggiati a tenere in mano una vera tazza, che rappresenta la tipica tazza Raku, che si sentirà pulsare al ritmo del battito del proprio cuore grazie alla connessione con un orologio da polso. All’interno della tazza, grazie a sensori di motion capture, si animerà poi un piccolo animaletto che ricorderà agli avventori l’immaginario di Miyazaki, e ci condurrà in un viaggio evocativo prima di tornare dentro il confortevole tipico ryokan giapponese.

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3: Tulpamancer

Forse l’idea più geniale di questa edizione, Tulpamancer mischia l’intelligenza artificiale con la realtà virtuale, nell’unica esperienza davvero personalizzata di Venice Immersive. Sulla base delle risposte date ad alcune domande in ingresso, l’oracolo Tulpa, che deriva dal buddismo tibetano ed è modellato qui con un certo sapore di retro-futuro, consegna la ricostruzione del passato, presente e futuro dell’utente, con immagini sempre diverse. A testimoniare la caducità e l’impermanenza della nostra esistenza, tutti i dati vengono cancellati alla fine di ogni esperienza, e rimangono quindi vivi solo nella memoria di chi li ha esperiti. I limiti dell’IA dietro al sistema sono evidenti, ma l’intuizione del duo newyorkese Marc Da Costa – Matthew Niederhauser va sicuramente nella direzione corretta, combinando due elementi che possono e devono stare insieme oltre il semplice hype pompato dai media.  

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2: Jim Henson’s The Seven Raven

Preparatevi alla rivoluzione del libro. Il duo Felix & Paul ha realizzato un’esperienza di realtà aumentata di livello assoluto, con una cura per i dettagli maniacale e restituzione grafica memorabile. Partendo dalla nota fiaba dei fratelli Grimm, e con la voce narrante di nientepopodimeno che Neil Gaiman, la produzione canadese-statunitense ha realizzato uno splendido viaggio esperibile tramite occhiali Magic Leap. A inizio esperienza, ci si vede consegnare un vero libro dalla pagine nere. Inquadrando le pagine con gli occhiali, e sfogliandolo, però, il concetto stesso di libro pop-up viene rivoluzionato, ed è possibile rivivere le animazioni che ripercorrono i passaggi della storia, disegnati in maniera impeccabile dal team di 3d artists. Al netto di qualche piccolo bug di funzionamento, uno strumento che può essere potentissimo.

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1: Songs for a Passerby

Che dire di quest’esperienza-installazione di produzione olandese, dove l’unica indicazione che viene data prima di infilarsi il visore è di “seguire la luce”? Non possiamo che unirci alla giuria del Festival che giustamente l’ha premiato come vincitore della sezione. Songs for a passerby è un’esperienza poetica, emotivamente coinvolgente, dove si incontrano cani randagi e cavalli morenti, ma anche il proprio doppelganger, inquadrato in live-action da un’altra prospettiva, e dove quindi si rincorre letteralmente se stessi, in un meraviglioso crescendo labirintico. Il lavoro di Celine Daemen, che dirige lo studio Nergens, muove da una poesia di Rainer Maria Rilke ma coagula intorno a sé un team poliedrico di talenti autoriali, musicisti, poeti, filosofi che produce un oggetto mistico, corredato di materiali a supporto, che non dà nessuna risposta ma fornisce un sacco di domande. E rimarrà in testa a lungo.

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A margine, è interessante notare come uno dei temi più esplorati sia quello della disforia di genere e delle tematiche LGBTQI+, rappresentato sia nel semplice “Queer Utopia” sino al ben scenografato“Body of Mine”, che usa il body tracking per incoraggiare a impersonare fisicamente una persona di un altro sesso, passando per il brasiliano “Finalmente Eu”, che presenta degli elementi divertenti e interessanti con un tratto distintivo e particolare. Molto presente anche il tema dell’Olocausto, anche se purtroppo nessuna delle opere sul tema si distingue particolarmente nella realizzazione.Interessante infine anche “First Day”, produzione ucraina uscita dalla fucina di Biennale College, che riporta gli utenti al primo giorno della guerra con la Russia. Ma duole rilevare che, anche in questo caso, l’idea è molto buona, ma l’esecuzione non all’altezza.

Nel complesso, l’isola del Lazzaretto dove la VR è confinata si presta benissimo a far da sfondo per immergersi in una realtà davvero parallela, ma per quanto la logistica sia impeccabile potrebbe forse aver senso per le prossime edizioni prevedere alcuni spin-off dislocati in postazioni più centrali, capaci di incuriosire e intercettare almeno nelle pause una piccola percentuale del grande flusso di cinefili che orbitano intorno al Palazzo del Cinema. I due mondi sembrano viaggiare su binari paralleli, con pochissima porosità tra di essi quando sarebbe invece fondamentale mettere a fattor comune i due ecosistemi, soprattutto per tentare di risolvere il problema più grande della produzione di esperienze virtuali, ovvero la distribuzione. 

Diversamente, è probabile che il fenomeno continuerà a rappresentare una nicchia avanguardistica sperimentale – a meno che non sia proprio questo l’obiettivo. 

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