Pensioniamo il Metaverso: quello che vogliamo è una Realtà Complementare

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Non una fuga in una realtà parallela dalla distopia, ma un complemento per supportare la nostra realtà: ecco dove vogliamo davvero che il visore di Apple, o chi per lui, ci porti.

Partiamo da un presupposto: al netto di quanto campagne pubblicitarie plurimilionarie vogliano vendervi, l’esperienza più immersiva è ancora quella reale. Voglio dire: andare agli eventi, vedersi di persona, incontrare gente davvero, pacche sulle spalle, passeggiare usando i cari vecchi cinque sensi, mangiare in ristoranti del posto, perdere coincidenze del treno, crearne di nuove, inaspettate. 

E però. Secondo le stime di McKinsey, da qui a meno di cinque anni passeremo in media quasi cinque ore al giorno nel Metaverso. Affermazione forte, soprattutto alla luce del fatto che non esiste ancora una definizione condivisa di cosa il Metaverso sia. Grattando un po’ sotto la superficie, si scopre che in realtà i gusti del pubblico non si stanno rivoluzionando, ma semplicemente evolvendo in maniera naturale. Ci sono un sacco di esperienze ripetitive e monotone che non è che non vorremo fare mai più, ma vorremo fare sempre più spesso in una modalità diversa. Che cosa? Beh, in primis, sempre secondo lo studio di McKinsey, lo shopping. Uno shopping vasto e variegato, che coinvolgerà inizialmente soprattutto il settore della moda e del lusso, ma si allargherà fino a comprendere quasi tutte le categorie merceologiche.

Su questo tema, la variabile della sostenibilità presenta aspetti più complessi da inquadrare di quanto ci si aspetterebbe: è vero che le consegne a casa di Amazon uccidono il commercio al dettaglio – e quindi i nostri centri storici – e impattano sull’ambiente, ma è anche vero che le merci che compriamo online, se le comprassimo recandoci fisicamente in un centro commerciale, avrebbero un’impronta ancora maggiore dal punto di vista della sostenibilità. Il fatto di poter provare digitalmente, ad esempio in realtà aumentata tramite la semplice fotocamera del proprio cellulare, degli abiti reali mi permette di risparmiare un sacco di tempo – con un impatto dal punto di vista sociale e lavorativo simile a quello della digitalizzazione delle banche, per dirne una – sul filtro iniziale della ricerca, allargandomi anche a possibili brand meno conosciuti o non disponibili fisicamente nel mio territorio di riferimento, e quindi aumentando la democratizzazione dell’esperienza d’acquisto anche verso produttori più piccoli.  Quello che non ha funzionato nel lancio del Metaverso da parte di Zuckerberg è – oltre al fatto che sia stato fatto appunto da Zuckerberg, ultimamente una sorta di Re Mida al contrario – che la promessa era incentrata sul fatto di sostituire attività che facevamo benissimo dal vivo, per spostarle in un contesto virtuale. Una promessa che i più hanno percepito da subito più come minaccia.

Voglio dire: dato che i lockdown, a Dio piacendo, sono finiti, è verosimile che la maggior parte delle persone per bruciare grassi ed intrattenere relazioni sociali coerenti con la nostra natura animale voglia semplicemente tornare in palestra, piuttosto che affettare con dei joystick frutta digitale che ci viene scagliata contro in un ambiente “immersivo” mentre abbiamo un visore in testa.

Mi sento di sintetizzare quindi che, per arrivare a un’adozione davvero di massa di queste tecnologie, il passaggio fondamentale sia quello di permettere a chi le usa di fare esperienze in tre casi principali, che costituiscono anche i tre casi fondativi di quella che chiamo “realtà complementare”:

  • Esperienze fisicamente impossibili IRL (in real life, come dicono i Gen Z americani): qui siamo nel dominio dell’impossibile, fisicamente o storicamente. Viaggiare nel tempo e nello spazio, superare le leggi fisiche, di gravità, teletrasportarsi, cambiare sesso, specie, identità. Tutte le cose per cui il Metaverso, così come ChatGPT e le sue sorelle, nella loro esperienza più pura, possono dare davvero il meglio, liberando il nostro potenziale creativo più puro, e aggiungendo sensazioni altrimenti inesplorabili nelle nostre esistenze.
  • Esperienze logisticamente complesse: vedere una mostra a New York quando vivo in Italia, partecipare a concerti a qualche migliaia di km di distanza, o radunarsi in centinaia di migliaia sulla cima di un monte lucano per una sessione di meditazione o un rave. Ma anche, e soprattutto: dare la possibilità di poter assistere a eventi a persone con disabilità. Ecco: se progetteremo queste esperienze in maniera virtuale, il pianeta e l’inclusività ne guadagneranno sensibilmente.
  • Esperienze costose, democratizzate: accedere a sessioni di formazione che in presenza costerebbero molto, o partecipare a lezioni universitarie a Milano con il caro-affitti attuale, o acquisire un grafico per promuovere il proprio sito indipendente o il proprio piccolo progetto personale. Qui la realtà complementare si sovrappone alla dimensione sociale, aprendo a una democratizzazione verso tutti i ceti sociali di esperienze altrimenti elitarie. 

Una riformulazione della realtà complementare in questi termini si muove sulla direttrice anche di una vera e propria ripopolazione delle province, dei piccoli borghi e dei contesti rurali: un trend di cui si era parlato molto durante il periodo pandemico per quanto riguarda il fenomeno del cosiddetto “smart working”, ma che non includeva l’esperienza di tutto quello che stava fuori dal contesto lavorativo, e che costituisce oggi uno dei motivi principali per cui una certa classe di lavoratori dell’industria creativa continuano a preferire vivere nei contesti metropolitani, anche se in condizioni abitative spesso sfidanti. 

Torniamo sugli eventi: se ho scelto o mi sono ritrovato a vivere in un contesto rurale, o provinciale, vorrei poter aver comunque accesso a un’offerta culturale coerente con le mie esigenze intellettuali, anche solo fosse appunto per filtrare l’offerta, e muovermi ad assistere ad eventi in presenza solo quando ne valga davvero la pena. Ma anche per chi vive nelle metropoli può essere piacevole vivere o rivivere alcuni eventi in una modalità diversa: posso andare al concerto di Paolo Conte, ma posso anche voler accedere a contenuti aggiuntivi – complementari – in una dimensione parallela su Paolo Conte, tramite visore o altri dispositivi.

Tutto questo vale anche per altri settori: la formazione, ad esempio, in cui ha senso cominciare a progettare parti dei corsi anche in un’altra forma (“studiare l’impero romano mentre si è immersi nell’impero romano”, come suggerisce Meta), oltre a quella ancor oggi più efficace della presenza; o il turismo, in cui può aver senso immergersi in un posto in maniera virtuale per decidere se poi visitarlo davvero o meno.  La realtà complementare è un paradigma capace di comprendere anche l’intelligenza artificiale: con la nuova tendenza delle IA generative, il tema non è tanto se l’automazione ci renderà disoccupati, ma come le innovazioni tecnologiche potranno assurgere al ruolo di super-assistenti per potenziare il nostro lavoro rendendoci capaci di concentrarci sulle cose che sappiamo fare meglio, da umani. Quali sono queste cose? Beh, forse sulla creatività (almeno quella mediocre) ci siamo un po’ sopravvalutati, se è vero che per le macchine è così facile simulare il nostro processo immaginifico ed emulare (superare?) i nostri risultati in ambiti così variegati quali la scrittura, le arti visive, la produzione musicale. Ma, come suggerisce l’innovatore taiwanese Kai-Fu Lee, un’oasi al momento ben più al riparo dagli attacchi dei robot è quella dell’empatia, su cui le doti umani sembrano davvero difficili da replicare anche dai migliori prodotti della Silicon Valley. Insomma, chi vorrebbe farsi curare davvero da un robot, o chi vorrebbe affidare i propri cari a care-givers domotici? In Occidente, almeno, nessuno dotato di senno – mentre in Oriente…

Ad ogni modo, l’approccio della Realtà Complementare permette di ribaltare il ruolo della tecnologia ricollocandola davvero al servizio dell’uomo: per rendere più efficace il nostro apprendimento, per risparmiare delusioni di viaggio, per aumentare l’esperienza di una mostra dal vivo o di un evento culturale, artistico, sportivo. 

Ci saranno anche aspetti più tecnici che decreteranno il successo della Realtà Complementare nel nostro uso quotidiano: in primis gli strumenti con cui vi accederemo, che giocoforza assomiglieranno sempre più a una versione rinnovata dei tanto vituperati Google Glass, lanciati troppo presto, e sempre meno a quelle scatolette occlusive che ci mettiamo in testa ora, grazie ancora a Zuckerberg. Ma è chiaro che, anche se nell’era dell’informazione e del nudging alimentato dal Capitalismo della Sorveglianza le grandi corporation stavano cercando in tutti i modi di convincerci che avremmo voluto vivere in una realtà virtuale parallela, in cui rifugiarci dalla oramai inevitabile distopia in cui pare siamo proiettati, tutto quello di cui abbiamo bisogno è semplicemente una realtà complementare, che funzioni da stampella digitale per il mondo che conosciamo, e in cui in fondo vale ancora piuttosto la pena vivere.

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